Oggi mi citerò addosso, e chiedo scusa in anticipo per questo, ma ritengo sia venuto il momento di tirare le fila di questi scritti che questa prestigiosa rivista internazionale, così gentilmente, ha deciso di diffondere.

Quasi un anno e mezzo fa venne pubblicato il mio primo scritto dal titolo Un concetto di società dove proponevo di uscire dagli schemi preconfezionati che ci mostrano la via da seguire per vivere la nostra vita. Sostanzialmente chiedevo ai lettori di provare a liberarsi dal conosciuto per pensare autonomamente a un’idea di società e di vita in comune non ancora tracciato e stabilito. Oggi riprenderò lo stesso argomento proponendo una possibile alternativa al modo di intendere il vivere in comune.

Proviamo per un momento ad estraniarci dalla realtà che ci affligge da più di due anni: vi ricordate com’era la nostra vita prima del Covid, o meglio, prima dei vari DPCM illegali1 che ci sono stati imposti? Era una vita idilliaca? Tutto andava bene e vivevamo nella migliore delle società possibili? Se risponderete sì, vorrà dire che la distrazione di massa in atto ha funzionato. Perché, a prescindere dalle cause di questa traballante pandemia, il dato di fatto che emerge è che tutti i problemi che ci attanagliavano fino a due anni fa oggi sembrano un ricordo lontano e, comunque, irrilevanti rispetto alla gravità della situazione sanitaria attuale. Ma questa non è la realtà, questo è il solito, vecchio gioco delle tre carte.

Fino a due anni fa, per distrarre l’opinione pubblica dai gravi problemi della società consumistica, razziatrice, bulimica occidentale, era sufficiente un campionato del mondo di calcio, o l’effetto narcotizzante della “fluorescenza” (come Giorgio Gaber identificava il potere ipnotico della televisione) - grazie ai programmi demenziali che, dall’avvento della TV commerciale, infestano le nostre menti - o procurando soddisfazioni effimere momentanee come l’acquisto del nuovo modello di cellulare, di televisione o di automobile, il potere taumaturgico delle compere. Ma questi mezzi stavano segnando il passo perché, nonostante si fossero dimostrati efficaci sulla maggior parte della popolazione, tuttavia lasciavano considerevoli sacche del dissenso al pensiero unico ancora troppo resistenti. Che sia uscito per errore da un laboratorio o meno, fatto sta che questo virus è stato e continua ad essere, cavalcato dal pensiero neoliberista per dare un’accelerata alla transizione verso un nuovo mondo di huxlesiana memoria.

Perché se vi ricordate bene, non è proprio vero che tutto filasse a meraviglia fino a due anni fa, anzi. E tutt’ora le cose non vanno per niente bene: stiamo assistendo ad un aumento “innaturale” dei costi delle materie prime; i prodotti energetici (gas, luce e petrolio) sono aumentati dell’84%, come scrivevo nel mio articolo dell’ottobre scorso Italiani pecoroni; a questi aumenti si sono aggiunti quelli dei prodotti alimentari; l’informazione che ci propinano somiglia sempre più ai proclami del signore di turno, più che a una vera informazione libera; i diritti dei lavoratori conquistati dopo le dure lotte sindacali e di piazza degli anni ’70, si sono dissolti come neve al sole; stiamo razziando la Natura fino a mettere in serio pericolo la nostra stessa sopravvivenza; sono in atto nel mondo quasi quaranta conflitti bellici2; sia a causa di questi che per le condizioni di vita disastrose, negli ultimi 50 anni il numero di migranti nel mondo è quadruplicato (84 milioni nel 1970 contro i 272 milioni nel 2019, il 3,5% della popolazione mondiale3); la scuola, la nostra povera scuola, è talmente svuotata di senso che dovremmo trovare un altro nome per definirla, tipo Azienda di Produzione di Carne da Macello! Purtroppo, potrei andare avanti per molte righe, ma lo spazio a mia disposizione è limitato.

Ma tutto questo passa in secondo piano, oggi si parla solo di Covid, non esiste altro.

Perché non ci vogliamo svegliare? Perché continuiamo questa parvenza di vita senza alcun moto di ribellione, come chiedevo anche nel mio scritto È questa la vita che hai sempre sognato? del febbraio 2021?

Mi rendo conto che andare contro i mulini a vento sia uno sport caduto in disuso, anche grazie alla potenza di fatto del sistema da contrastare. Probabilmente potrebbe essere anzi controproducente. Pensiamo, infatti, alla capacità che ha il sistema di rigirare sempre le cose a suo favore. E questo lo fa, soprattutto, distorcendo il senso delle parole e svuotandole del significato originale. Per esempio, il dipendente della Goldman Sachs che ci governa parla di “…difendere questa normalità con le unghie e con i denti” 4, riprendendo le parole della deputata Noja. Oppure il termine “alleati” che, soprattutto se utilizzato dagli statunitensi, nasconde il vero significato di “popoli conquistati”; o l’ossimoro delle “guerre umanitarie”; o la mentalità “pluralista” del neoliberismo che, al contrario, ci vuole tutti livellati al suo credo.

Se quindi ci sembra di essere finiti in un circolo vizioso - al quale, parafrasando Elio e le Storie Tese, non abbiamo fatto richiesta per diventarne soci, ma siamo stati cooptati – dal quale sembra non esserci scampo, se combattere il sistema nella sua totalità potrebbe essere possibile solo attraverso la cultura e, quindi, tramite le scuole in primis e tutti gli organi culturali a disposizione oggi, se quindi per poter cambiare radicalmente il sistema potrebbero essere necessari anni o forse decenni, una cosa però è sicuramente possibile fare già oggi: creare una società parallela o anche, più società parallele, un concetto abbozzato nel mio precedente articolo La grande illusione.

Come tutti sapete il sistema di vita occidentale non è l’unico esistente al mondo, né lo è stato in passato. A parte i più conosciuti sistemi socialisti o comunisti, ci sono anche altri tipi di società o di comunità, possibili. Per esempio, il sociologo Ferdinand Tönnies distingue tra le società assimilabili a prodotti meccanici, dove l’industria e la burocrazia sono strutture fondamentali e le comunità paragonabili a organismi viventi, dove i legami tra gli individui sono profondi e gli obiettivi sono di tipo collettivo. Anche il sociologo francese Émile Durkheim distingue tra le società segmentarie, nelle quali i membri si riconoscono come simili e condividono gli stessi valori e società industriali dove, attraverso la specializzazione del lavoro, ognuno partecipa a differenti stadi del processo produttivo.

Oltre che nel periodo tra la metà degli anni ’60 e la fine degli anni ’80, dove le comunità di diverso tipo fiorivano ovunque, grazie alla presa di coscienza di diversi giovani in tutto il mondo (che si trattasse di comunità autosufficienti, spirituali o di altro genere), anche oggi giorno convivono, su questo pianeta, diversi tipi di comunità. Nonostante l’imperialismo mascherato da globalizzazione dei mercati, tutt’ora alcune culture resistono caparbie al modello occidentale, o perché refrattarie allo stesso o semplicemente grazie all’enorme dimensione dei territori su cui esse insistono, usualmente zone rurali difficili da raggiungere anche per i potenti mezzi del “Capitalocene”, neologismo coniato dal sociologo inglese Jason Moore per identificare il nostro tempo.

Chiamiamole come vogliamo, classifichiamole, incaselliamole come preferiamo, ma il concetto è che non c’è un modo univoco di intendere le società, come invece la globalizzazione ci spinge a credere. Allora, perché non pensare alla possibilità di scegliere il sistema societario o comunitario in cui più ci si identifica? Perché non potrebbe essere possibile sganciarsi dal modello capitalistico/consumistico, senza per questo dover convincere il mondo intero a vivere come pensiamo sia giusto? Essere poveri non vuol dire non avere soldi, ma non avere scelta e, allo stato attuale, noi, come specie umana, siamo poverissimi.

A volte, direi molto spesso, succede che un’idea che coviamo nel profondo, un’idea che continua a girare nella nostra testa e che piano, piano inizia a prendere una forma meno onirica e più pragmatica, trovi rispondenze tra persone che si riconoscono. Come quando si è costretti a cambiare vettura, perché la propria ha raggiunto il limite della sua obsolescenza programmata e si pensa di acquistare il modello tal dei tali e da quel momento, per le vie della città, non si vedono altro che vetture del modello tal dei tali, cosa che fino al giorno precedente non si era notata. Allo stesso modo ultimamente noto che questo concetto di comunità parallele si sta diffondendo tra persone e studiosi che nemmeno si conoscono. Si sta creando l’archetipo che, seppure dovesse durare poco, comunque avrebbe il pregio di essere esistito.

Pensare a delle società che condividono lo stesso mondo, ma non la stessa visione del mondo è già un primo passo avanti. Personalmente non credo sarebbe sufficiente. Mi piace pensare che tali comunità non dovrebbero necessariamente esistere in uno spazio fisico delimitato, come succede oggi con le nazioni, ma potrebbero coesistere all’interno di altre realtà.

Prendiamo l’esempio delle comunità religiose: se sono cristiano continuo ad esserlo anche se vivo in un Paese buddista, per esempio; all’interno della stessa nazione coesistono realtà religiose diverse che, fino ad oggi, convivono pacificamente. Certo, chi dirige il gioco sta cercando di metterle una contro l’altra, ma io so per esperienza diretta che tra le popolazioni, tra le persone che formano queste comunità religiose, non c’è alcun astio e, viceversa, si rispettano profondamente.

Quindi la possibilità di condividere lo stesso luogo e lo stesso tempo, tra ideologie diverse è possibile.

Penso che, piuttosto di pensare a cambiare il mondo, dovremmo intraprendere la strada dell’interculturalità, intendendo con questo termine non solo l’intrecciarsi delle culture, che pure sarebbe un primo passo per comprendere il mondo, ma anche e soprattutto la libertà di scegliere a quale di queste culture appartenere e, perché no, di far nascere culture non ancora sperimentate. Insomma, evolversi.

Perché non dovrebbero avere il diritto di esistere gruppi di persone riconosciuti ufficialmente che non hanno alcun interesse nell’accumulare denaro? O dove la priorità sia di cercare l’armonia con il resto della Natura? O di utilizzare le parti non distruttive del progresso tecnologico, in modo da rendersi autosufficienti sia dal punto di vista alimentare che energetico? Da diverso tempo gli architetti e gli urbanisti progettano e realizzano abitazioni attente al consumo energetico, edificate con materiali che hanno un basso impatto sull’ambiente, capaci, anzi, di autoalimentarsi energeticamente. E non solo edifici singoli, ma anche intere città. Economisti di diverse nazioni sono arrivati a proporre modelli economici che si staccano definitivamente dal concetto di guadagno e puntano, al contrario, ad un’economia che promuova la vera circolarità e che non consenta la speculazione finanziaria.

Come ho detto in precedenza, diversi studiosi stanno lavorando su questo concetto che mi piace chiamare di “comunità diffusa” e credo proprio che questo non sarà il mio ultimo articolo al riguardo, anche perché sarebbe pretenzioso che un breve scritto come questo possa essere sufficiente anche solo per descriverlo.

Di strada da fare ce n’è ancora tanta, ma già oggi possiamo fare molto: per esempio, toglierci le bende dagli occhi e cominciare a guardare il mondo con il proprio sguardo e non con quelli delle corporazioni.

Note

1 Tribunale di Roma, Sezione 6 Civile – Ordinanza n. 45986/2020 - R.G. del 16/12/2020.
2 Heidelberg Institute for International Conflict Research. Anno di riferimento 2019.
3 XXIX Rapporto immigrazione di Caritas Italiana e Fondazione Migrantes.
4 Consiglio dei Ministri del 15 dicembre 2021.