Racconta lo storico greco Diogene Laerzio che al filosofo cinico suo omonimo, Diogene di Sinope, fu chiesto perché mai andasse in giro in pieno giorno con una lanterna accesa. “Cerco l’uomo”, avrebbe risposto.

Fatica inutile sarebbe per lui, se tornasse per qualche evento prodigioso sulla Terra, ritentare l’ardua ricerca. Dove una volta avrebbe incontrato un essere umano troverebbe un computer, uno scanner, una gettoniera. S’imbatterebbe ovunque in macchinette automatiche dispettose dal funzionamento complicato che dovrebbero dispensare di tutto, dalle merendine alle bibite, dai biglietti ferroviari ai preservativi, ma che alla fine, dopo aver ingoiato i soldi o preso atto del passaggio della carta di credito, dispensano quello che loro decidono di darti invece di quello che è stato chiesto. E non reagiscono agli insulti e alle percosse.

Non ci sono più, infatti, esseri umani agli sportelli delle banche, delle poste, delle stazioni ferroviarie. Non ci sono più nemmeno gli sportelli. Non c’è più un essere vivente al quale poter chiedere un’informazione sulla fermata alla quale scendere da un autobus. Non c’è più una donna o un uomo, che ti possa aiutare a fare un bonifico bancario o una spedizione all’estero, o darti un consiglio sul treno più comodo da prendere. E se pure in tanta desertificazione scorgessi un individuo in divisa, dall’aspetto di ferroviere, di controllore o di vigilante al quale azzardarti a chiedere un’informazione, se mai ti degnasse di una risposta, si limiterebbe a indicarti la tabella o il totem al quale rivolgerti, con l’aria di commiserazione per la tua incapacità a destreggiarti con la moderna tecnologia.

Diventa perfino inutile l’uso della parola; si comunica mostrando il cellulare sul quale c’è tutto di te: nome, cognome, biglietto aereo, del treno o del teatro, prenotazione della camera in albergo, certificato medico, nazionalità.

Dietro i numeri telefonici, anche quelli cosiddetti verdi, non c’è una persona che ti risponde, ma una voce di sintesi registrata, che ti indica quali numeri devi digitare, seguiti, secondo la fantasia di chi ha fatto il programma, dall’asterisco o dal cancelletto, in una specie di gioco forsennato che ti rimanda da un numero all’altro fino a quando non perdi la pazienza e chiudi la comunicazione per lo più con un’imprecazione, ammesso che la linea non sia caduta prima da sola.

L’unica voce umana, ma non richiesta o cercata, che trovi dall’altro capo del filo telefonico è quella poco affidabile dell’addetto a un call center, che ti chiama con falsa affabilità nelle ore più inopportune, che si qualifica con un nome comune spesso di fantasia, e che invece sa tutto di te, dati anagrafici, indirizzo e costo delle ultime bollette pagate. Dalla cadenza si capisce che dietro un Gennaro o un Pasquale si nasconde spesso un Vassili o uno Svatioslav, e dietro una Maria o un Marta, una Irina o una Katiuscia. Si tratta di telefonate spesso proditorie che arrivano in orari nei quali in casa si può trovare solo un pensionato, possibilmente un po’ rimbambito e un po’ sordastro, o un po’ intontito perché svegliato di soprassalto nel più bello della pennichella pomeridiana, da gabbare strappandogli con destrezza un “sì” messo in calce a un contratto stipulato a voce.

Il solo contatto umano fisico appena un po’ ravvicinato che è rimasto è quello agli incroci, dal finestrino, col cristallo imprudentemente abbassato, della macchina, con i disperati che cercano di pulirti alla meno peggio il parabrezza, di appiopparti l’ennesimo pacchetto di fazzolettini o, il più diffuso di tutti, l’accendino, anche se nessuna fuma più. Proposte alle quali il massimo che si oppone è uno sbrigativo “No!”, sempre che non si preferisca un meno faticoso diniego scuotendo la testa. L’altro contatto umano è quello nelle strade del passeggio coi volontari di mille associazioni benemerite che chiedono aiuto per i vari guai nel mondo cercando non soldi ma i numeri della tuo conto corrente, o, peggio, con i sempre più diffusi giovani aitanti che ti vengono incontro salutandoti calorosamente e, mentre ti sforzi di ricordare chi mai sia e dove mai l’hai conosciuto, o di quale amico sia figlio, ti trovi stralunato possessore di una collezione di calzini di acrilico che non metterai mai.

Alla fine da uno sportello bancomat, se funziona, puoi farne di cose nel mondo del dare e dell’avere, senza bisogno di interagire con un impiegato vivo e sopravvissuto al taglio degli esuberi. Puoi fare da te benzina al distributore. Al casello autostradale non c’è più anima viva. Se non hai telepass o viacard, butti i soldi in una vaschetta e una gentilissima voce che viene dal niente ti ringrazia pure. E se c’è tra te e la macchinetta una qualsiasi forma di incomprensione la sbarra non s’alza e l’unica avvisaglia sonora è quella dei clacson di chi dietro di te protesta.

Mi dice il vecchio zio Giulio che ai suoi tempi non esisteva la teleselezione e che per telefonare da una città all’altra bisognava prenotare la comunicazione al centralino del gestore telefonico e stabilire l’ora della conversazione. Qualche volta, visto che telefonava spesso al fratello a Milano, riconosceva la voce della centralinista e addirittura scambiava con lei qualche battuta sul meteo. Certo, zio Giulio ammette che ce ne voleva di tempo, ma in compenso non c’era la disperazione che dà il cellulare quando non ha campo.

Perciò, che felicità, quando chiamo il radiotaxi e, nel momento in cui ho confessato come mi chiamo, e la signorina (o il signorino) ti riconosce e ti saluta citando il tuo cognome! Ma per un fugace momento di piacere del contatto umano e di vanità, non posso certo stare sempre a chiamare il radiotaxi, anche quando non ne ho bisogno.

Tra poco ci saranno automobili senza guidatore, treni senza macchinisti, scuole senza insegnanti, teatri senza attori in carne e ossa. Già ci stiamo abituando a questa assenza umana con ospedali senza medici e infermieri, con incroci senza vigili urbani, con musei senza custodi perché i pensionati e i defunti non sono stati sostituiti.

La tecnologia ci darà certamente computer sempre più sofisticati, robot, androidi e un’intelligenza artificiale, che non invecchia, non rincretinisce, non dimentica e non sbaglia mai. L’iniezione forse in futuro ce la farà un infermiere artificiale che avrà sempre mano leggerissima sulla spalla, sulla vena o sul sedere. Già la temperatura corporea te la scrive uno scanner a cui hai guardato negli occhi.

Si renderebbe conto, allora, il redivivo filosofo cinico Diogene, tornato sulla terra, dell’inutilità della sua ricerca, perché anche se finalmente lo trovasse, il suo uomo non servirebbe davvero più a niente. E noi, che filosofi non siamo, ma che cinici stiamo per diventare, ci rendiamo conto che avevano ragione gli scrittori visionari come Orwell, Bradbury, Asimov e Wells che pronosticavano un futuro nel quale l’uomo è solo la rotella di un ingranaggio sovrastante, ineluttabile e perfetto.

È nel giusto, allora, chi sostiene che ci vorrebbe un nuovo umanesimo, magari cominciando dalla scuola? Per carità! Con tutto quello di più importante e di più impellente che c’è da fare prima!