Non ricordo come inciampai nell’autobiografia di Joyce Lussu ma oggi a distanza di quasi dieci anni, come accade spesso a chi legge di buona lena, ritrovarla in apertura dell’affascinante racconto La nostra casa sull’Adriatico1 mi permette di capire ancor meglio quella compagine anglosassone che ha abitato la nostra penisola a partire dalla metà dell’Ottocento, incidendo profondamente su tanti aspetti della vita e del paesaggio italiani.

Durante una trasferta nelle Marche, tra agricoltori illuminati della provincia di Fermo, approdo nel paese di Torre San Patrizio, un piccolo centro medievale murato a pochi chilometri dal mare tanto che si può scorgere in lontananza quel tratto di Adriatico che in pochi anni è per lo più conosciuto per il turismo e per la manifattura calzaturiera. Il paese, la cui parte storica è arroccata tra lacerti di mura medioevali, è circondato da colline di girasoli, bionde distese di cereali come grano duro, frumento tenero, farro e leguminose: lenticchie e ceci. L’impronta agricola si scorge oggi solo se si osserva con attenzione qualche casa antica, ottocentesca, squadrata e possente, dispersa tra le ampie coltivazioni che lasciano ormai poco spazio a siepi e alberature. La calura estiva si fa sentire, trovo un bar dove ristorarmi con un’acqua tonica; seduti ai tavoli dei placidi pensionati hanno voglia di chiacchierare e vedendomi alla ricerca di un luogo fresco, in attesa che inizi il convegno, mi consigliano di andare su nel poggio del paese, nella villa Zara, quella “dell’inglese”… “sì, si chiamava Collier non ricordo il nome però” dice uno di loro davanti ad un bicchiere di vino.

Musica per le mie orecchie. Mi reco subito lì rapita dall’idea che qualcuno mi stesse aspettando: una presenza, un lacerto di vita antica, un giardino che non ha più senso di essere, tanta la distanza che oggi lo separa dal tempo in cui fu amato e generato. Ed è proprio così, pochi segni di vita lasciano intendere che non sia abitata da molti anni, quella casa nascosta tra rovi, alberature scompigliate dalla crescita spontanea, generosa, prodiga di verdissimi tralci di madreselva e svettanti palme cinesi. Capisco che la casa padronale è disabitata e diroccata, rimangono dietro la vegetazione archi di logge aggettanti al primo piano, segno di un’eleganza signorile, ma non è più accessibile tanto intricata la vegetazione pervasa da rovi spinescenti. Un lungo viale di cipressi si staglia verso valle, sono antichi e perfetti, benché mancanti del lato che guarda l’Appennino cosicché scorgo i misteriosi Sibillini. Rimane abitata l’appendice più rurale, che mantiene segni di un gusto discreto con piccoli vasi in cotto che punteggiano i lati del tetto.

Con una rapida ricerca non mi è difficile risalire a Margaret Collier (1846-1929), la scrittrice inglese che dopo l’Unità d’Italia è catapultata in quella piccola cappellania di San Venanzo, con la vista straordinaria sul mare da un lato e l’aspra catena montuosa dall’altro, dopo aver incontrato e sposato il colonnello garibaldino romano Arturo Galletti de Cadilhac (1843 - 1912). Scopro un mondo anglo-marchigiano che è la compagine adriatica corrispondente a quella ben più nota, sul versante occidentale italiano, passata alla storia come anglo-fiorentina2. Ma la sorpresa sta proprio nel poter apprezzare tutti i dettagli di questo mondo Ottocentesco rurale, una testimonianza importante e vivida, attraverso la mano leggera e accattivante di una donna sui generis per quel tempo, la vitale e affettiva Margaret, come la ricorda sua nipote, Joyce Lussu3, scrittrice ironica e spregiudicata.

La madre di mia madre era una gentildonna londinese, di cultura liberal radicale (Darwin e Huxley, Gladstone e Russel), romanticamente invaghita dei guerrieri garibaldini e con idee piuttosto chiare sulle rivendicazioni delle donne e in generale dei ceti subalterni.

Questo lo spunto per entrare subito nel merito della personalità forte e risoluta di Margaret, che pur provenendo da un ambiente aristocratico e da una famiglia inglese della upper class – almeno diciotto i domestici della casa di Lord Robert Collier, padre di Margaret – affronta con spirito di autonomia e pura ricerca dell’essenziale, di quei momenti che Virginia Woolf definirà moments of being, (La Signora Dalloway, Londra 1925)4, un ambiente rurale povero, una proprietà terriera tutta da gestire, una casa grande senza alcuna comodità priva di qualsiasi minimo comfort a cui era abituata fino alla giovinezza. Da un contesto cosmopolita, colto e di stampo vittoriano per l’educazione e la formazione, Margaret riceve un’impronta piuttosto aderente alle convenzioni della sua epoca sebbene poi non segua le aspirazioni della famiglia che probabilmente la vorrebbero moglie di un membro della classe a cui appartiene, colto benestante e affermato. Come bene asserisce Lussu nella sua biografia:

Tutte queste inglesi, piovute da un cielo così diverso in quel remoto angolo degli Stati Pontifici che era la zona di Fermo, avevano portato una ventata d’aria antipapista e idee e abitudini nuove nel pubblico e nel privato, che contrastavano con quelle di una società decisamente cattolica e maschilista5.

Margaret dovette affrontare a partire dal 1873, anno del suo matrimonio, un progetto di recupero strutturale e formale oltre che economico agricolo della canonica diroccata. Il marito, supportato per l’acquisto dalla famiglia di lei, aveva solo dato una sistemata alla meno peggio dando un assetto a casa e giardino entrambi sui toni del bianco, sapendo della predilezione della giovane sposa per quel colore: cavalli a manto latteo, galline livornesi, gelsomini, yucche e acanti tutti rigorosamente a fiori bianchi, quello stile del giardino inglese che ritroveremo nella paesaggista e scrittrice Vita Sackwille West amica di Woolf, a Sissinghurst.

Di culto protestante, Margaret non andava a messa, non usciva accompagnata dalla cameriera, andava da sola a cavallo e “cosa inaudita da quelle parti” nuotava liberamente al mare con costumi piuttosto audaci per il tempo, perché lasciavano libere braccia e ginocchia. Quindi niente bustini di denti di balena – il bustino per le donne venne eliminato intorno al 1905 ma molte lo tennero ancora fino a tutto il primo ventennio – scarpe comode, Collier leggeva riviste italiane e straniere che si faceva recapitare oltre a testi di cultura generale, letteratura e politica. Era per l’epoca veramente una donna “scandalosa” agli occhi di un proletariato agricolo arretrato in cui le donne nelle campagne italiane, dovevano avere certi requisiti: “gambe di lepre, ventre di formica e schiena d’asino”, e pur non essendogli riconosciuto alcun ruolo, non avevano neanche possibilità di esprimere opinioni proprie, mentre “assumevano un lavoro continuo e fornivano un contributo essenziale per l'economia rurale e la sopravvivenza della famiglia rurale6”.

Tuttavia, anche agli occhi di quella borghesia altolocata ed aristocratica italiana che costituiva il ceto elevato marchigiano, impregnato di cattolicesimo, tradizionalista e conservatore oltre che patriarcale e maschilista, Margaret costituiva un “eccezione” di genere. Era quindi “scandalosa” benché l’opinione pubblica orientata dall’arcivescovo, pur cercando un appiglio per urlare allo scandalo, concretamente aveva di fronte a sé una moglie fedele al marito italiano, che era un libertino, una buona madre e educatrice che preferiva seguire personalmente i propri figli piuttosto che affidarli alle balie o nei collegi come invece facevano le dame marchigiane. Testimonianza certa una mia zia nata a Senigallia, di ottima famiglia, fu istruita in collegio e con uno stile educativo rigido, pudico, mi raccontava che le uniche letture che le concedevano erano quelle di devozione. Il resto lo leggeva di nascosto al lume di candela. Erano gli anni Trenta del Novecento!

Margaret Collier, che aveva già pubblicato racconti spesso ambientati in Italia sia su riviste di letteratura che in volume, I Camorristi e altri racconti (Remington, Londra 1882), rimase in Italia per oltre un ventennio, ebbe due figli e quando uscì Our Home by the Adriatic (R. Bentley, Londra 1886) erano già tredici anni che sperimentava la sua nuova vita nell’entroterra marchigiano, poco dopo pubblicherà anche il romanzo in due volumi Babel (W. Blackwood, Londra1991). È interessante entrare dentro la sua vita attraverso un racconto che, pur non lasciando troppe concessioni al privato, sviscera tanti ambiti di quel mondo e della vita in dodici capitoli: dalle occupazioni e ai divertimenti del tempo, le abitudini dei contadini, la religione e la superstizione, la politica e il sindaco del paese, le gite e i corteggiamenti, fino alle traversie e agli aspetti piacevoli della sua esistenza. Con una visione sempre lucida e distaccata, priva di sentimentalismi inutili, l’autrice non è mai paternalista o pecca di supponenza nonostante la sua preparazione culturale e la posizione sociale. “La critica alla società marchigiana, dice Lussu nell’introduzione, è abbastanza spietata, ma non era indulgente nemmeno verso la società britannica da cui proveniva”. Non amava frequentazioni altolocate né la vita mondana fatta di chiacchiere vuote, imparò a fare molto da sé, visto che inservienti e cameriere in stile anglosassone (silenziosi, puntuali e impeccabili alla maniera del fantastico James Stevens in Quel che resta del giorno di Kazuo Ishiguro) non ce n’era l’ombra, realizzò un giardino che ricordava la sua Inghilterra, ed un frutteto, la casa acquisì due belle torrette quadrate e la loggia al modo di una residenza britannica di campagna. La sua permanenza italiana non è quella di una outsider, bensì una donna che intuitivamente senza troppa fatica ed elucubrazioni cerebrali si connette con semplicità agli usi locali alle loro stranezze e ristrettezze, per lo più dovute alla mancanza di strumenti culturali ed economici. Nessuna traccia delle incomprensioni con il compagno italiano con cui scoprì di avere ben pochi intenti e sentimenti in comune al punto di separarsene per tornare a fine secolo nella sua Londra.

Nel 1900, dopo il fallimento del suo matrimonio, si imbarcò sulla Valigia delle Indie, un piroscafo che da Trieste navigava attraverso il Mediterraneo, il Mar Rosso e l’Oceano indiano per raggiungere il figlio al servizio civile inglese. Qui mi viene alla mente il personaggio mitico e letterario di Mrs. Moore quella incredibile figura narrativa che ha fatto il successo di Forster nel notissimo Passaggio in India.

Note

1 Margaret Collier, La nostra casa sull’Adriatico, a cura di Joyce Lussu, Il lavoro editoriale, Ancona 2019.
2 Mi riferisco in particolare ad alcune figure che hanno vissuto in Toscana sulle quali ho già pubblicato in questa rubrica ed altrove: Iris Origo, Mabel Dodge, Constance Fenimore Woolson, Vernon Lee, Claire Clairmont e Edith Wharton.
3 Joyce Lussu (1912-1998) nata Gioconda Beatrice Salvadori Paleotti, poetessa, scrittrice e traduttrice di poeti rivoluzionari come Nazim Hikmet, fu partigiana impegnata politicamente sia in Italia che all’estero. Sposò Emilio Lussu, scrittore e politico italiano, e ne acquisirà il nome per firmare le sue opere. È sepolta insieme a Lussu nel cimitero acattolico di Roma.
4 Anche se il testo A Vindication of the Rights of Woman a firma di Mary Woolstonecraft (1759-1797) era uscito nel 1792, le vere conquiste in termini di parità di accesso agli studi e alla vita pubblica era ancora ben lontano persino nella avanzata Inghilterra. Il primo testo su questi argomenti che ebbe un buon successo, Le tre ghinee di Virginia Woolf, risale al 1938!
5 A tal riguardo per chi desideri esplorare questo mondo di espatriate inglesi nelle Marche sempre lo stesso editore, Il lavoro editoriale, nel 2005 ha pubblicato una interessante antologia The English in the Marche. Novels and Romantic Landscapes from a new discovered region, a cura di Giorgio Mangani, con brani tratti da opere di G. Gretton, M. Collier, J. Lussu, V. Lee. Il Lavoro editoriale pubblica anche un accattivante romanzo storico di Joyce Lussu Sherlock Holmes. Anarchici e siluri (Ancona, 1982) una spy story che si avvale dello stratagemma del ritrovamento degli appunti della nonna Margaret.
6 Perry Willson, Italiane. Biografia del Novecento, Edizioni Laterza, Milano 2011.