Ermete, quindi, se ne tornò all’alto Olimpo,
per l’isola folta; e io alla casa di Circe
andavo; e molto il mio cuore nell’andare batteva.
Mi fermai sulla porta della dea belle trecce,
e là fermo gridai; la dea sentì la mia voce.
Subito, uscita fuori, aperse le porte splendenti,
e m’invitava: e io la seguii sconvolto nel cuore.

(Omero, Odissea, X, 307-313)

Questi versi dell’Odissea di Omero inerenti al primo incontro di Ulisse con Circe, maga e dea “dalle belle trecce”, ci ricordano immediatamente la sublime, perché terrificante e al contempo meravigliosa, aura che circonda e definisce questa figura femminile: per il potere convenutole dall’abile arte di mescolare le sostanze ottenendone micidiali phàrmaka1, fu da subito proclamata regina dei personaggi più splendidamente terribili di questo poema epico. Dopo che ebbe, infatti, trasformato in porci alcuni compagni di Odisseo, questi, graziato dal provvidenziale aiuto del dio Ermes che gli aveva fornito consigli e il mòly, un’erba magica dal fiore bianco e dalla radice nera, capace di renderlo immune ai veleni di Circe, si diresse alla casa di lei, con il cuore tremante nel petto: dopo che la maga gli ebbe somministrato la fatale bevanda, vedendo che su di lui non aveva effetto, riconobbe nello straniero il predestinato Odisseo, di cui Ermete stesso le aveva annunciato l’arrivo da Ilio in fiamme, “sull’agile nave nera”. Circe “dai molti filtri”, che aveva il dono della profezia, che sapeva evocare le anime dei defunti e aprire la strada per il regno degli Inferi, è descritta da Omero come pericolosa e selvatica, “terribile”, percorsa da una inquieta sensualità, vibrante di ira e capriccio volubile; solitaria abitante della selvaggia isola di Eea, la “signora degli animali”, era capace di ammansire e aggiogare bestie feroci, come lupi e leoni stregati dai suoi “filtri cattivi”.

La dea dominatrice di uomini che aveva dimora, come una regina, in un palazzo di pietra degno dei grandi re micenei, trovata dagli sbadati compagni di Ulisse mentre era intenta a cantare e tessere con maestria la sua tela, ordito “immortale e pieno di grazia”, non era foriera di distruzione, ma di trasformazione: le metamorfosi da lei generate, che mutavano le sembianze ma non la mente delle sue sfortunate vittime, acuendone il dolore, furono narrate anche da Ovidio, che descrisse la storia di Scilla, un tempo splendida fanciulla, poi divenuta mostruosa. Omero ci racconta di Circe come di una dea “parlante”: non con un linguaggio comune, ma con quello del canto, aoidè, in questo caso magico, simile a quello delle Sirene, che ammaliano i naviganti. Non è certo un caso se anche queste figure mitologiche dalle sembianze di uccelli e dalla voce sovrumana e seduttrice fossero maghe, in tal caso, però, anche orride e, soprattutto, mortifere. A differenza di Circe, infatti, attiravano i marinai uccidendoli: la modalità della morte è taciuta da Omero, ma è probabile che venissero storditi e impazzissero tanto da naufragare contro gli scogli. Così, infatti, nel famoso episodio dell’Odissea, l’innaturale e improvvisa calma del mare che preannunciava ad Ulisse l’imminenza di un evento magico, portandolo a farsi legare all’albero maestro, era foriera dell’arrivo nella zona delle Sirene, che tutto conoscevano di ciò che accadeva sulla terra feconda.

Impossibile non annoverare, nella schiera di donne pericolose e terribili della mitologia, Medea, maga e barbara, doppiamente reietta e considerata “diversa”: nella versione di Euripide manifestava la sua vendetta contro Giasone, il marito che l’aveva tradita e lasciata per sposare una donna più giovane, inviando alla nuova consorte una ghirlanda e un peplo intrisi di veleni che la divorarono all’istante lasciandola esanime in terra con il volto irriconoscibile, da cui sgorgavano in un unico ammasso sangue e fuoco; la stessa sorte toccò al padre della fanciulla, avvicinatosi per prestarle soccorso. È noto che anche i figli che Medea aveva concepito con Giasone furono da lei brutalmente uccisi con la spada; che aveva tradito suo padre Eeta per amore di Giasone; che uccise e fece a pezzi suo fratello Apsirto e il tiranno Pelia: e che si rivelò, dunque, una temibilissima assassina.

Apollonio Rodio, invece, nelle Argonautiche, la descrisse come una fanciulla, ancora ingenua e rigogliosa, innamorata del suo Giasone, da cui corse, sfidando tutto e tutti, a piedi scalzi, ma portando con sé l’immancabile cassetta delle pozioni. Durante questo viaggio per terre ignote la ragazza accumulò esperienza fino ad affinare al massimo, non solo le sue abilità nelle arti magiche, ma soprattutto l’astuzia e la crudeltà che riponeva nei suoi inganni: mise in atto la capacità di uccidere con i suoi farmaci, di ringiovanire le persone, come fece con Esone, il padre di Giasone, di affatturare, di ipnotizzare, di restituire la fertilità, e persino di raggirare, come quando, attraverso influssi magici, convinse le figlie di Pelia a farlo a pezzi, facendo loro credere che ne avrebbe bollito le parti in un calderone per ringiovanirlo.

Di figure femminili astute e grandi in malvagità è piena la letteratura greca antica (ricordiamo anche Elena, la donna più bella del mondo, a causa della quale l’intera Grecia si mosse in guerra contro Ilio): che fosse solo un’inconscia manifestazione scritta dell’atavica paura che gli uomini avevano delle donne? Ad avvalorare questa ipotesi potrebbe esserci la testimonianza di Aristofane, autore della commedia Le donne al parlamento, la cui trama narra di un gruppo di donne riuscito, con astuti inganni, a prendere il potere ad Atene, perché convinto di poterlo gestire meglio dei cittadini di sesso maschile, col fine di elaborare provvedimenti basati sul principio dell’uguaglianza totale. Nei rocamboleschi eventi di questa commedia, seppur capaci di richiamare alla mente, in qualche modo, tematiche legate alle ideologie moderne del Comunismo e del Femminismo, è presente solo un lieve rimando ai temi sociali, che qui risultano invece esasperati e vanificati dalle azioni troppo utopistiche e irreali dei personaggi. Ciò differenzia molto questa commedia dalla Lisistrata, opera dello stesso autore che ha come protagonista una donna ateniese che convince tutte le altre greche a negare ogni rapporto sessuale ai mariti fino a che non avranno posto fine alla guerra, e che sa coniugare, invece, uno sfondo politico serio ad un tipo di ironia esplicito e scurrile, farsesco. Laddove nella Lisistrata, infatti, si denuncia un’esigenza di pace politica tra Atene e l’antica rivale Sparta, e quindi in tutto lo scacchiere panellenico, ne Le donne all’assemblea si punta l’accento sull’estremizzazione di un’utopia, che porta inevitabilmente alla distruzione dell’ideale stesso. Che fosse, poi, proprio un programma rivoluzionario ideato dalla fantasia femminile, agli occhi dell’uomo antico e degli autori greci misogini per topos letterario, bastava ancor più a squalificarlo e a marchiarlo come irrealizzabile.

Se, dietro a questo tentativo di sminuire il sesso opposto e a questo senso di superiorità mostrato dagli uomini antichi, ci fosse stato un briciolo di sospetto della potenziale realizzazione di una rivoluzione rosa, non è dato sapere. Sicuramente, citando anche le Tesmoforiazuse, Aristofane si è divertito ad elaborare una pungente parodia, non solo di Euripide, ma inevitabilmente anche delle sue figure femminili: pur avendo, infatti, preso a partito le protagoniste corrotte e perverse del mondo euripideo, Aristofane ha trascurato sia il significato polemico che era nelle intenzioni del tragediografo, che le molte figure femminili elevate e purissime che popolavano le sue opere. Inoltre, pur difendendo parodisticamente le donne negative del teatro euripideo, Aristofane non ne ha certo eliminato i vizi: piuttosto li ha ribaditi secondo i canoni della misoginia antica.

Concludendo, non è inopportuno ricordare che in ogni personaggio “malvagio” della letteratura, proprio perché costruito e immaginato nella sua totalità di essere umano con le sue crepe interiori, è possibile rintracciare anche aspetti positivi e nobili: persino Medea, maga terribile nella poesia e nel teatro, è stata la possibile evoluzione letteraria di una divinità femminile dell’età del bronzo capace di dominare la natura con la sua forza magica; e Circe, invece, di una dea mediterranea, signora della fertilità. Inoltre, non è stata forse, Circe, capace di instaurare con Ulisse un rapporto di piena fiducia, dopo che, avendo notato la sua immunità ai filtri, gli offrì il suo letto e il suo cuore, promettendogli di non ordire più inganni alle sue spalle e assecondando immediatamente la sua richiesta di liberare e riportare alla forma umana i suoi compagni? Non è stata sua totale compagna di vita per oltre un anno, tanto da avergli fatto cadere nell’oblio i ricordi della terra natìa e della casa, di Penelope e di Telemaco, suo figlio amato? Se non lo avessero ridestato dal torpore i suoi compagni, Odisseo, l’eroe multiforme, sarebbe rimasto ancora a bearsi e a perdersi tra la chioma fatata della bellissima e crudele Circe. Capace, come una persona reale, di un profondo cambiamento interiore, perché passata dall’essere donna terribile ad amante premurosa, Circe ha saputo anche accettare il rifiuto e la partenza dell’uomo amato: Ulisse che, andato da lei una sera a confessarle il suo ridestato desiderio di ripartire per Itaca, è stato benevolmente accolto dalla maga che lo ha aiutato e lo ha assecondato nell’impresa.

Troppo libera e fiera per trattenerlo contro la sua volontà, Circe decise di lasciarlo andare, ma prima c’era un’ultima impresa che Odisseo avrebbe dovuto compiere: andare verso la casa di Persefone e Ade, dove lei lo avrebbe guidato, per interrogare lo spirito dell’indovino Tiresia, l’unico a cui fu concesso di mantenere i ricordi, a differenza delle altre anime vaganti come ombre senza memoria. Circe sapeva che Odisseo aveva bisogno di ricordare, della sua vita, degli altri, del mondo che lo circondava: troppo era stato il tempo perso a crogiolarsi nel dolore del ritorno, del nostos, e nel tentativo di sopravvivere continuo; troppo era stato fuori dal mondo, dal suo tempo; e Circe, che lo aveva saputo fin da subito, lo aiutò a riprenderseli, iniziando l’uomo al viaggio verso l’Ade, e attendendolo al suo ritorno. Come una persona cara. Come una donna innamorata. Come qualcuno che è stato curato dall’amore, e che ha imparato che, spesso, è proprio dalle crepe che entra la luce.

1 In questo caso ‘pozioni velenose’; può, però, assumere anche il significato di ‘preparati curativi’.

Bibliografia

C. Dell’Acqua, Il nodo magico. Ulisse, Circe e i legami che rendono liberi, Mondadori, Milano 2021.
D. Del Corno, Letteratura greca, Principato, Milano 1995.
G. Guidorizzi, La trama segreta del mondo. La magia nell’antichità, Società editrice il Mulino, Bologna 2015.
Omero, Odissea, trad. di R. Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino 1990.