Le anime più forti sono quelle temprate dalla sofferenza. I caratteri più solidi sono cosparsi di cicatrici.

(Kahlil Gibran)

La pratica giapponese del kintsugi, letteralmente ‘riparare con l'oro’, si basa sull’idea che da una ferita può generarsi una forma di perfezione estetica e interiore ancora maggiore di quella originaria, la frattura racconta una storia singolare.

Gli oggetti che hanno subito una rottura, generalmente vasellame, vengono riparati utilizzando polvere d’oro o argento liquido o lacca con polvere d’oro per saldare i disordinati frammenti. In questo modo gli oggetti grazie alle fratture e alle preziose riparazioni assumono più valore, sia economico che per l’unicità delle dorate linee che si intrecciano in base alla casualità delle frantumazioni.

Un semplice vaso diventa un pezzo unico, così come siamo noi con la nostra storia unica e irripetibile.

Una pratica che va in controtendenza con l’agire consumistico che spinge a buttar via gli oggetti rotti e anche ahimè con la stessa facilità le relazioni che non funzionano.

Non a caso l'arte del kintsugi viene spesso utilizzata come simbolo e metafora di resilienza, termine così diffuso ultimamente riferito a una funzione psichica che si modula nel tempo attraverso l’esperienza e al vissuto sia del singolo individuo che delle società, indicando la capacità di fronteggiare le avversità, di riformulare la propria vita senza scalfire la propria identità, piuttosto a rigenerarla.

Andrea Canevaro definisce la resilienza come:

La capacità non tanto di resistere alle deformazioni, quanto di capire come possano essere ripristinate le proprie condizioni di conoscenza ampia, scoprendo uno spazio al di là di quello delle invasioni, scoprendo una dimensione che renda possibile la propria struttura.

Il termine resiliente originariamente si riferisce alla capacità dei metalli di resistere alle forze che vengono applicate, un metallo resiliente non è fragile né vulnerabile. La resilienza psicologica è la capacità di vivere affrontando le difficoltà, gli ostacoli che inevitabilmente si incontreranno durante il cammino esistenziale come opportunità di autoconoscenza, ‘ciò che non mi distrugge mi fortifica’ potrebbe essere il motto del resiliente. Le sfide vinte sono medaglie al valore, cicatrici da esibire orgogliosamente perché sono i segni delle consapevolezze interiori che formano e trasformano continuamente l’Eroe nel suo viaggio. Ogni esperienza è preziosa, nasconde un messaggio, tutto avviene per il nostro bene, siamo noi che scegliamo come reagire agli eventi. E non siamo in grado di ‘vederci’ se non attraverso gli altri, siamo come un prisma multicolore che in base all’esposizione alla luce mostra tinte variegate.

Essere resiliente significa saper integrare le turbolenze emotive che caratterizzano il rapporto con gli altri.

Non mi pento dei momenti in cui ho sofferto, porto su di me le cicatrici come se fossero medaglie.

(Paulo Coelho)

Ogni cosa nasce da una frattura, lo spermatozoo buca l’ovulo per fecondarlo, il pulcino rompe l’uovo per venire al mondo, tanto per fare qualche esempio.

Immaginiamo adesso un uovo, integro, dal guscio duro, che contiene un microcosmo che racchiude un macrocosmo, come rappresentato esotericamente dall’uovo cosmico equivalente allo zero, «un nulla latente che produce qualcosa di attivo, di vivente». Da esso, infatti, scaturiscono tutti i numeri grazie alla fecondazione dell’Uno ad opera dell’intervento divino ordinatore del caos, lo zero rappresenta la divinità, l’universo e l’uomo.

L’uovo cosmico è simbolo del mito cosmogonico della creazione dell’universo, simbolo primordiale presente in molte civiltà antiche.

È poetica la concezione induista dell’uovo cosmico detto hiranyagarbha o "grembo d'oro", un nucleo galleggiante avvolto nel buio della non-esistenza nell’oceano primevo. Brahmā lo rende manifesto attraverso l’emissione della sillaba aum, il soffio vitale originario. Così dalla metà superiore del guscio, fatta d'oro, nacque il cielo mentre dalla metà inferiore, fatta d'argento, nacque la terra.

Secondo la cosmogonia africana dei Bambara in origine vi era un uovo vuoto riempito ad opera del soffio creativo dello Spirito.

Simbolo eccellente di resilienza è la Fenice che per gli antichi egizi possiede il soffio vitale e che prima della sua morte costruisce un nido a forma di uovo e vi brucia totalmente, dalle sue ceneri nascerà nuovamente un uovo nutrito dal Sole, ciclo dopo ciclo.

Mircea Eliade così scriveva:

La virtù rituale dell'uovo non si spiega con una valorizzazione empirico-razionalistica dell'uovo come germe; si giustifica invece col simbolo che l'uovo incarna, riferibile non tanto alla nascita come alla rinascita, ripetuta secondo il modello cosmogonico. Si prenda uno qualsiasi di tali complessi mitico-rituali, la sua idea fondamentale non è la "nascita", è invece la "ripetizione della nascita" esemplare del Cosmo, l'imitazione della cosmogonia.

Del resto, se l’uovo rimanesse sempre intatto, se non ci fosse nessuna frattura, esso non farebbe sorgere da sé alcuna vita e quindi non avrebbe il senso per cui esso stesso esiste, rappresentando semplicemente il primo stadio di tutta l’evoluzione. Colui che, onde preservarsi dalla realtà, pretende di mantenere il suo guscio intatto diventa un embrione mai nato.

Anche in Alchimia l’uovo è simbolo dell’origine e archetipo capace di risanare la corruzione della materia riportando ogni elemento alla sua originaria purezza. Infatti la pietra filosofale è rappresentata da un uovo vitreo e i suoi componenti guscio-albume-tuorlo corrispondono ai tre ingredienti alchemici sale, mercurio e zolfo, dalla cui combinazione si ottiene la Grande Opera.

Infine, ma non meno significativa simbologia, nella religione orfica si narra che la dea Notte o Nyx depone un uovo d’argento che viene fecondato dal soffio di Borea, un uomo barbuto dai due volti e alato che nella mitologia greca è la personificazione del Vento del Nord, e dal quale nasce Eros, l’Amore, la forza vitale che origina il pensiero, mediatore tra divino e terreno, quel collante che unisce vari elementi senza annullarli.

È proprio l’amore che guarisce ma per farlo bisogna trovare la ferita, bisogna far combaciare le parti spezzate, comprendere i ‘lembi’ per poi riattaccarli.

Noi, come gli oggetti, siamo a rischio rottura, la relazione con noi stessi e con gli altri è una continua frattura e ricomposizione, riformulazione: se comprendiamo il significato delle rotture e le integriamo con la consapevolezza della preziosità degli insegnamenti sottostanti, assumiamo una forma sempre più inestimabile.

C'è una crepa in ogni cosa. Ed è da lì che entra la luce.

(Leonard Cohen)

La tendenza a concludere frettolosamente rapporti, come dicevo inizialmente, questa compulsione consumistica che spinge a eliminare ciò che non riteniamo più gratificante, narcisisticamente appagante, è segno dell’assenza di consapevolezza del valore che hanno le relazioni, fucina alchemica di trasmutazione dell’ombra dalla quale vogliamo fuggire. Ma è proprio nelle inceppature del percorso relazionale che si nascondono i nodi emozionali da sciogliere.

Di fronte a qualcosa che si è rotto, che sia dentro di noi o nelle relazioni che viviamo, o raccogliamo i pezzi e li gettiamo nella spazzatura o cerchiamo di ricostruirlo, di dargli nuova vita e nuovi significati.

Proviamo a pensare a una lite con una persona a noi cara, cosa ci ha ferito? Cosa non sopportiamo di lei?

Cosa ci fa soffrire nella relazione? Se soffriamo è perché abbiamo difficoltà ad amare principalmente le nostre di imperfezioni. Amare è una scelta coraggiosa, è un addestramento alla capacità di gestire le emozioni dolorose. Puoi andare nel tuo spazio intimo e riflettere sull’evento, cosa risuona in te dell’altro? Qual è il messaggio per me e su di me?

Questo allenamento continuo è nemico dell’odio perché ci offre una prospettiva diversa, guardiamo nell’altro noi stessi, lo amiamo nonostante tutto. L’amore vuole fortemente amare ‘anche se…’, genera amore nel tempo grazie alle azioni, non alle intenzioni.

La pratica del kintsugi richiede pazienza, osservazione, calma, tranquillità, visione d’insieme nel riprodurre l’oggetto originario, tutte qualità psichiche indispensabili per il lavoro interiore che conduce alla verità su chi siamo.

Facciamo di noi stessi, vasi spezzati dalla vita, un gioiello pregiato… gioiello deriva da gioia, lo stato di incontenibile soddisfazione, felicità e come disse Seneca:

Nessuno lontano dalla verità può dirsi felice.

Concludo con un aforisma che racchiude l’intento di questo articolo, sperando di averlo espresso.

Più che: “Chi sei, da dove vieni”, io chiederei: “Quali ferite hanno fatto di te quello che sei.

(Albert Hofman)