La sempre imprescindibile Rhino Records ha di recente onorato la grande tradizione americana del soul-jazz: lo ha fatto in relazione al Black History Month, un appuntamento che va avanti negli States dal 1976, ripubblicando una serie di pietre miliari come Young Gifted and Black, che trova Aretha Franklin all'apice delle sue capacità in questi larghi microsolchi di color arancione. Un brano interpretato per prima da sua maestà Nina Simone, fornisce quindi il nome ad un album che apparve cronologicamente tra i suoi due rivoluzionari dischi dal vivo - Live at Fillmore West - che consacrò la sua accettazione da parte del più vasto pubblico rock, e Amazing Grace, che invece la riconciliò nel cuore delle sue radici gospel.

Un disco prodotto dal super team composto da Jerry Wexler, Arif Mardin e Tom Dowd, doveva essere di per sé al di fuori di ogni schema, e difatti il più perfetto amalgama di R&B, soul e gospel con venature pop, confezionato addosso ad Aretha, disorientò gran parte della critica, che ad un primo ascolto quasi lo denigrò, valutandolo come eccessivamente incentrato su ritmi commerciali. Ovviamente rispetto al robusto sound proveniente da Memphis e Detroit cui sister Aretha era solita. Ma nel 1972 si era in piena evoluzione di costume e rivendicazioni, anche nei movimenti a difesa dei diritti civili. La lotta era incessante: il centro del soul si stava evolvendo verso altre coordinate, ovvero a Philadelphia, dove Aretha, si misurò con successo anche nella scrittura, firmando un terzo dei brani presenti.

Fate attenzione a Daydreaming e Rock Steady, che spiccano per intensità e gusto ritmico. Lo stesso che the Queen of Soul utilizza nella scelta delle cover: il brano della Simone si trasforma in un potentissimo gospel, la ripresa di The long and winding road, ricordato dalla storia come l'ultimo singolo dei Beatles, è rivisto con una delicatezza magistrale e l'apporto all'hammond dell'insostituibile Billy Preston, che durante le session si scambiava il posto niente meno che con Donny Hathaway, l'altro nome top cui è dedicata una collection in stiloso doppio vinile color violetto.

Dalla torch version di A Song for You, l'antologia rovista in lungo e in largo tocca nella carriera dell'influente artista, mettendo in evidenza alcuni dei duetti più memorabili con Roberta Flack, reginetta indiscussa di quel periodo, per le intramontabili versioni di The Closer I Get to You e You've Got a Friend di Carole King, solo per nominarne due.

C'è anche un assaggio di Hathaway in concerto, con la sua vibrante resa di What's Going On, il marchio di fabbrica di Marvin Gaye, catturata al Troubadour di West Hollywood, in un album dal vivo, registrato sempre in quel benedetto 1972.

Con un salto in avanti di 4 anni invece arriviamo al magnifico George Benson di Breezin', che si avvantaggia di un bel tono azzurro per questo vinile che scorre silenzioso. Lodato finanche da Miles Davis e uscito dalla costola di Wes Montgomery, Benson dopo l'apprendistato con la Prestige, viene notato da Creed Taylor, che lo mette sotto contratto con la A & M e lo proietta verso la fusion, con qualche occhiata non solo accennata al funky e dei ritmi latini non eccessivi. In altre parole, verso un suono più ammiccante e vicino alle classifiche, che diventerà imprescindibile per quello che comunque rimane un grande chitarrista. Qui ci troviamo di fronte a un vero capolavoro, con sei brani che scorrono placidi e sornioni, quasi come l'espressione di George in copertina.

Quando gli amanti del jazz acquistarono Breezin', il 15° album di Benson e il primo per la Warner Bros., c'era poco che indicasse che il disco poteva essere qualcosa di diverso rispetto a quello che gli ascoltatori si aspettavano dal versatile chitarrista: una selezione di jazz strumentale dalle varie ispirazioni e radici. Proprio come Benson aveva fatto tante volte prima. Poi la puntina scivolò sulla seconda traccia - una lenta combustione di otto minuti incastonata su un timbro vocale suadente: il pezzo era This Masquerade, una ballad scritta da Leon Russell.

Fu qui che la sua storia cambiò. È vero, Benson aveva cantato su disco anche prima, ma quella commistione fra arpeggi e scat vocali era troppo ammaliante per il pubblico del pop, assai più danaroso e snob. Le stazioni radio iniziarono a suonare il brano, che arrivò al numero 10 della Billboard Hot 100 Chart. Quando il clamore si spense, Breezin' aveva venduto più di tre milioni di copie – dato inaudito per un album anche solo vagamente jazz - con George che aggiunse un paio di Grammy al suo scaffale: uno per il Best Pop Instrumental, grazie alla title track scritta da Bobby Womack e uno come Record of the Year per This Masquerade, che resta l'unica traccia vocale presente. Il resto è davvero pieno di idee e potenza strumentale, con Benson e i pianisti/tastieristi Jorge Dalto e Ronnie Foster, che si scambiano idee ed assoli su emozionanti arrangiamenti orchestrali. Fu un successo clamoroso e meritato. Purtroppo, dagli anni '80 in poi il nostro eroe si perderà in produzioni di dubbia fattura, in mezzo a dei capitoli più convincenti, come il portentoso Give Me The Night, prodotto da Quincy Jones. Altra vetta olimpica.