Fare immersioni non è naturale. Indossare una cintura con pesi di piombo e far uscire l’aria dal GAV (Giubbotto ad Assetto Variabile) con la consapevolezza che queste due azioni faranno scendere il nostro corpo sott’acqua è contrario al nostro istinto di sopravvivenza. Anche se saremo noi stessi a decidere fino a quale profondità arrivare. Perché la natura non ci ha muniti di branchie e neanche del riflesso delle immersioni dei delfini. Ma il mare azzurro-verde dell’Isla Catalina nella Repubblica Dominicana sembrava mi chiamasse, guardare i pesci e i coralli attraverso la maschera dall’alto mi sembrava un’esperienza parziale, e inoltre volevo capire la passione di mio figlio e forse superare la preoccupazione quando lo sapevo a immergersi nelle caverne sottomarine o a grandi profondità nel freddo Oceano Pacifico, dove sono di casa non solo le balene ma anche gli squali bianchi.

Il corso Discover Scuba, creato soprattutto per i vacanzieri, mi sembrava un’ottima opportunità. Sembrava facile; con grande entusiasmo ho indossato l’attrezzatura e, accompagnata da un giovanissimo istruttore, mi sono diretta alla piscina per provare a respirare sott’acqua. Non devo aver capito bene e quando l’istruttore mi ha fatto cenno di togliere l’erogatore e rimetterlo in bocca, ho respirato acqua e mi sono sentita affogare, in circa un metro d’acqua di una piscina di un resort a distanza di qualche metro da bambini che giocavano con palle e papere di gomma. Mi sono tolta la maschera e ho cominciato a tossire, in preda a una sensazione mista di panico e di assoluto senso del ridicolo, di inadeguatezza. Neanche quel mare spettacolare e caldo, neanche le condizioni atmosferiche perfette riuscirono a farmi cambiare idea. La mia esperienza con la subacquea finiva li. Il mio istinto di sopravvivenza e le mie paure non mi permettevano di vivere la barriera corallina, i coralli e i pesci che sono qualche metro più giù di quanto non si veda con la maschera dalla superficie.

Mi sentivo sconfitta. Ho vissuto la mia vacanza a pelo d’acqua e sono tornata a casa con in bocca un sapore dolce per la bellezza dei luoghi e amaro per la mia sconfitta. Non ci ho pensato più, siamo esseri umani, mi sono detta, e talvolta certe paure non riusciamo a superarle. Poi è venuto il tempo del Covid con giornate lunghe che si dipanavano in un’atmosfera sospesa e surreale, mio figlio che non poteva lavorare trascorreva la maggior parte delle giornate sott’acqua e lo guardavo con un desiderio incredibile di poter vivere anche io il mare, di poter avere un’esperienza e una passione comuni. Da quando i miei figli sono nati, ho sempre predicato che dobbiamo affrontare e cercare di superare le nostre paure. Che esempio stavo dando non riuscendo a superare la mia di paura? Così un giorno di questi mesi sospesi gli ho chiesto di farmi riprovare in piscina. Ho indossato muta, pinne, maschera, GAV, bombola, erogatore e pesi e sono riuscita a scendere circa un metro sott’acqua. La voglia di togliermi la maschera e respirare era quasi irresistibile ma con la razionalità del pensiero mi sono vinta e sono rimasta sott’acqua per circa mezzo minuto, per me un tempo quasi infinito. Poi i minuti sono diventati due o tre e poi ho deciso che era venuto il momento e in un giorno nuvoloso di fine ottobre mi sono iscritta al corso Open Water che mi avrebbe certificata per arrivare a una profondità di 18 metri.

Mi sembrava una distanza irraggiungibile, quasi mi avessero detto di scalare l’Everest. Ma ormai la decisione era presa. Conscia dei miei limiti ho optato per un corso privato, non volevo avere, oltre alle mie paure, l’angoscia di far perdere tempo ad altri e di sentirmi io una zavorra per chi di paure non ne aveva. Ho studiato la teoria, ho fatto il test e poi è venuto il momento della prova pratica in piscina. L’istruttore, un ex marine, mi dava tranquillità e nello stesso tempo non lasciava spazio alle mie ansie. Ho nuotato, mi sono tolta l’erogatore dalla bocca e me lo sono rimesso con grande tranquillità concentrata sulla sua mano che ripeteva lentamente i gesti che indicavano l’inspirazione e l’espirazione. E ci sono riuscita. Non mi sembrava vero. Il prossimo passo sarebbe stata la prova in mare aperto, non per niente il corso si chiama “open water”.

Prenotato per il primo giorno disponibile, il 12 dicembre. Appuntamento alle 6 del mattino al centro immersioni dove avremmo preso l’attrezzatura per la prima immersione dalla spiaggia. Quel giorno c’era una pioggerellina leggera e fino alle 7 era quasi buio. Chi me lo fa fare? Pensavo fra me. La risposta era semplice: il desiderio di comprendere la passione di mio figlio e poter forse un giorno condividere questa esperienza. Ho sceso i gradini che portavano al mare bardata di un’attrezzatura pesante, per me signora di una certa età, e lì c’era l’oceano ad aspettarmi. Un oceano dalle onde quel giorno quasi inesistenti ma la cui acqua era in superficie a circa 15 gradi. Fredda. Molto fredda. Superata la battigia, mi sono infilata le pinne e poi, non perdendo di vista neanche per un attimo l’istruttore, ho spinto il pulsante del GAV e ho iniziato a scendere. Talmente concentrata sugli aspetti tecnici che la paura non aveva spazio, si dissolveva. Il mondo in cui avevo vissuto fino a quel momento sembrava lontano, completamente immersa nell’acqua che diveniva elemento primordiale, avvolta dal silenzio interrotto solo dal rumore ritmico del mio respiro e delle bolle d’aria.

Mi sentivo leggera e libera, nel mio elemento, serena, senza alcun pensiero, affascinata dalla vita che scoprivo in quell’oceano dove i colori tenui degli scogli e delle alghe era punteggiato dell’arancione vivace dei pesci Garibaldi (Hypsypops rubicundus) e dei testa di pecora della California (Semicossyphus pulcher). Ero felice. Il cuore era colmo di gioia e sarei potuta andare ben oltre 18 metri, chissà cosa avrei potuto avere andando ancora più giù. L’immersione subacquea, però, deve essere legata alla prudenza, all’attenzione, ai limiti, alla disciplina perché non è il mondo naturale dell’uomo, perché le pinne sono di gomma e le branchie non le abbiamo.

Sarei potuta rimanere sott’acqua tutta la giornata invece che quella mezz’ora. Una mezz’ora in cui ho scoperto un’altra dimensione, immersa in una sorta di meditazione in cui il mantra erano le bolle d’aria e il mio respiro. È stata una sensazione simile a quella che potrebbe essere il volo, una sensazione di libertà e di comunione con la natura. Come dei flash mi è venuto in mente Jacques Cousteau sul suo Zodiac dei tanti documentari, ho ricordato il mio fidanzatino dei tempi dell’università che si immergeva impavido senza tutta la tecnologia di oggi, e ho capito, in un attimo la passione di mio figlio. Mi sono sentita come in un videogioco in cui si spalancava la porta di un altro livello e cominciava una nuova avventura e allo stesso tempo si apriva un chakra, una porta della mia consapevolezza e la vita da quel giorno è diventata più bella.