La mia terra natia è la Sicilia, pervasa di misteri, fucina di antiche scuole esoteriche ed esempio di cultura matriarcale legata al culto della Grande Madre, archetipo del femminino potente e numinoso strettamente connesso con la Luna, con l’inconscio, dal significato simbolico ambivalente. La terra, infatti, accoglie nel suo utero, genera vita ma al contempo la distrugge in un ciclo incessante di nascita-sviluppo-maturità-declino-morte e rinascita che caratterizza sia la vita dell’uomo che i cicli cosmici. Questo processo è ben simbolizzato dall’Uroboros o serpente cosmico che divorando sé stesso si rigenera.

Un simbolo del femminino è la montagna che ispira la trascendenza, è axis mundi ovvero simboleggia l’asse che collega il cielo alla terra, così come tutte le costruzioni che tendono verso l’alto ripropongono la sindrome edenica cioè il desiderio di ricongiungersi con il divino, di superare la dualità basata sulla separazione illusoria tra l’Io e il Tutto che genera un senso di abbandono, di mancanza.

La mia città, Trapani, ha la sua montagna sacra, “U munte”, Erice, con il suo borgo medievale la cui origine affonda nel mito.

Diodoro Siculo narra che Erice fu fondata da Eryx, Re degli Elimi, figlio dell’argonauta Bute e di Afrodite, che dedicò la montagna a sua madre e fece erigere in suo onore un tempio sulla vetta. Inoltre la tradizione vuole che questo luogo sia stato abitato dai Ciclopi da cui prende il nome l’architettura ciclopica delle mura ericine o di quelle di Mozia antica. Da decenni viene custodita ed esposta in un negozio di prodotti tipici ericini una scultura molto amata dagli abitanti che raffigura un ciclope, tappa obbligata per i numerosi visitatori che affollano le strette vie del borgo.

Il mito narra che Erice sfidò Ercole, venuto a visitare il territorio, stabilendo un patto: se avesse vinto Ercole avrebbe ceduto le vacche sacre che portava con sé, in caso contrario Erice avrebbe ceduto le sue terre. La sfida vide vittorioso Ercole che con magnanimità lasciò il regno di Erice ai suoi abitanti.

Ma prima di esplorare il culto della Venere Erycina ritengo utile fare una premessa.

Nella cultura siciliana è ancora presente il principio dell’uovo cosmico come fondamento dell’universo e l’acqua come principio di fecondità.

L’uovo è infatti elemento sempre presente nella cucina tradizionale e delle festività. E non a caso, ma perché esso è simbolo del rinnovamento della vita. In molti miti siciliani, inoltre, sono protagonisti sia l’acqua che le ninfe. Conoscere il mito mediterraneo dell’uovo cosmico, fa comprendere le radici profonde delle tradizioni siciliane e del culto della Venere Erycina di cui mi appresto a narrare.

Questo mito inizia con l’emersione dal Chaos della Grande Dea nuda che, non trovando un appoggio, divise il cielo dal mare e cominciò a danzare sulle onde. Danzando vorticosamente si diresse verso Sud spinta piacevolmente dal vento caldo che l’accarezzava. Ad un certo punto si girò per afferrare il vento, lo sfregò tra le mani trasformandolo in un serpente gigantesco. Così la Dea riprese la danza a ritmo ora frenetico, passionale, accendendo il desiderio nel serpente che sfociò poi in un amplesso travolgente. Volando a pelo d’acqua la Dea si trasformò in colomba e depose l’uovo cosmico, ordinando al serpente di avvolgerlo tra le sue spire per sette volte. Dall’uovo dischiuso nacquero tutte le cose esistenti, il rettile però si vantò di essere l’artefice della creazione provocando l’ira della Grande Madre che lo imprigionò negli oscuri recessi di una caverna.

In questo affascinante mito delle origini vi è l’entità primigenia Chaos ed il principio femminile, Shekhinah, la dimora della parte femminile di Dio che ha la funzione di conciliare gli opposti, di unire cielo e terra. Il femminile fa da mediatore, quindi, tra il mondo divino e il mondo umano, la creazione del mondo materiale infatti è l’espressione femminile del Dio maschio e rappresenta essa stessa lo Spirito.

L’energia femminile opera nel buio, nelle profondità marine, è nell’oscurità dell’inconscio che avviene la cura dell’anima, la guarigione delle ferite, la trasmutazione delle energie inferiori. La Grande Madre è salvatrice e distruttrice, è la Dea dai mille volti e dai tanti nomi, Astarte per i Cartaginesi, Toruc per i Fenici, Afrodite per i Greci e infine Venere per i Romani.

Esploriamo quindi le caratteristiche uniche e ben strutturate del culto della Venere Erycina: affonda le sue origini in oriente come si deduce dal simbolo del cane consacrato ad essa e a molte divinità orientali lunari. Un’altra peculiarità è la prostituzione sacra, praticata già in oriente da secoli e in pochi luoghi nel mediterraneo tra i quali Erice, ellenizzata dal 750 a.C.

Dal mito origina anche l’allevamento di colombe: dal tempio, infatti, al ritorno della primavera le sacerdotesse ne liberavano uno stormo, atto simbolico dell’epifania dello spirito, diretto all’omologo tempio cartaginese di Sicca Veneria, mentre dall’Africa altre colombe giungevano al tempio ericino.

Il sontuoso santuario di Venere Erycina era il tempio più bello e più visitato di tutta la Sicilia: strabordava di oro, argento e tesori accumulati nel tempo. Fu costruito all’aperto, sull’asse nord-est/sud-ovest come tutti i templi orientali, su una piattaforma di base progettata dall’architetto Dedalo che possiamo ammirare a tutt’oggi. Molti alberi e colonne lo circondavano, vi era inoltre un suggestivo pozzo sacro dove le sacerdotesse e la Dea si immergevano per purificarsi.

Con i romani il culto diventerà religione pubblica, infatti nel 211 a.C. fu portata la statua della Dea dal tempio di Erice a Roma e furono poi edificati due templi in onore alla Venere Erycina. Con l’avvento della religione cristiana, nel quarto secolo d.C., il tempio fu distrutto e sulle rovine elimo-fenicie-romane fu costruito dai Normanni il Castello di Venere, tutt’ora meta di turisti da tutto il mondo.

Dal racconto del filosofo Licofrone la Dea avrebbe salvato le tre figlie del troiano Fenodamante portandole sul monte Erice. Egesta, la maggiore, si accoppiò con il fiume Crimiso che assunse le sembianze di un cane e dall’unione nacque Ergeste, fondatore di Segesta. Si narra che periodicamente al tempio si consumasse un amplesso tra una delle Jerodule, le sacerdotesse ericine, e il Gran Sacerdote del Tempio che indossava la maschera di un cane.

La prostituzione sacra era praticata dalle Jerodule che arrivavano da ogni parte dell’isola ed offrivano la loro verginità alla Dea congiungendosi con i viandanti che arrivavano fin lassù, ogni compenso ricevuto arricchiva il tesoro del tempio che fu razziato per le sue ricchezze da Amilcare Barca.

Le Jerodule erano “servitrici della Dea”, giovani vergini che praticavano riti sia sessuali celebrando così lo hieros gamos, il matrimonio divino, che riti con danze e musiche. Inoltre, esse avevano il compito di mantenere il fuoco acceso dell’ara come segnale per le navi di passaggio.

La dimensione rituale è imprescindibile per la psiche. Come afferma Mircea Eliade: “Ogni rito, ogni mito, ogni credenza, ogni figura divina riflette l’esperienza del sacro, e di conseguenza implica le nozioni di essere, di significato, di verità. Il ‘sacro’ è insomma un elemento nella struttura della coscienza, e non è uno stadio nella storia della coscienza stessa. Ai livelli più arcaici di cultura vivere da essere umano è in sé e per sé un atto religioso, poiché l’alimentazione, la vita sessuale e il lavoro hanno valore sacrale. In altre parole, essere – o piuttosto divenire – un uomo significa essere ‘religioso’.”

Il sacro è la divinità che emana parti di se stessa nelle forme manifestate, è l’unione tra cielo An e terra Ki, tra principio maschile e femminile, da questa diade si manifesta l’Anima del Mondo.

Attraverso l’esperienza del sacro l’uomo soddisfa il bisogno innato di significato, di senso sia del mondo che dello stare nel mondo, conquista lo stato di coscienza non duale, quel paradiso perduto con la nascita dell’Io che è principio di separazione dal Tutto, l’uomo ritrova così l’unione col divino.

Nel rito sacro vi sono degli elementi ben precisi impregnati di energia vivificante: colui che vuole il rito, colui che lo celebra, l’offerta sacrificale e colui al quale l’offerta è dedicata ovvero il divino nelle sue infinite forme.

E qual è la matrice di tutte le energie se non l’energia erotica? Essa è l’energia creativa per eccellenza, è strumento di conoscenza, la vera conoscenza infatti è un atto erotico che spalanca il portale di accesso ad uno stato di coscienza ampliato in cui avviene l’unione con il mondo delle idee, degli Dei che sono aspetti del divino onnipresenti in tutti gli elementi della natura.

La sessualità è un atto creativo sacro, è offrire il Sé, è fare l’amore con il divino, con l’Anima del Mondo che è la manifestazione stessa del Sé. Così si sperimenta l’estasi, l’ispirazione, la liberazione dai condizionamenti dell’Io.

L’atto sessuale nella prostituzione sacra simboleggia l’offerta alla Dea della potente energia che si scatena durante l’amplesso, per rinnovarne la fecondità, per favorire il rinnovamento dei cicli cosmici e l’abbondanza dei raccolti. Esso avveniva all’aperto, in connessione diretta con gli elementi e con l’offerta dei residui degli amplessi alla madre terra.

In questa ottica quando un uomo e una donna scelgono di unirsi per fare l’amore diventano sacerdote e sacerdotessa, incarnano i due principi universali dalla cui fusione deriva la manifestazione delle forme nel mondo. Dedicare l’atto d’amore a qualsiasi cosa che abbia un valore benefico per l’umanità e per il cosmo, sacralizza l’energia quantica che viene rilasciata nell’atto sessuale, in quel momento di vuoto, di connessione con il campo unificato della pura coscienza.

Il solo Tempio veramente sacro è il mondo degli uomini uniti dall’amore.

(Lev Tolstoj)