Molto tempo dopo la pubblicazione di The origin of species by means of natural selection (1859) di Charles Darwin1, nacquero e si diffusero delle discipline psicologiche (Strutturalismo, Funzionalismo, Behaviorismo, Gestalt, Intelligenza artificiale, Scienze cognitive, eccetera) anche se alcune di loro non ressero alle evidenze scientifiche e praticamente furono accantonate (vedi il Behaviorismo), altre invece si consolidarono rilevando il ruolo di alcuni principi evoluzionistici fondamentali, ad esempio quello della variazione genetica ai fini della sopravvivenza su cui opera la selezione naturale senza nessuna finalità.

Così è nata la psicologia evoluzionistica, anche se all’inizio ci furono molte “contaminazioni”, molte contrapposizioni scolastiche, dovute, da un lato, a una visione olistica del comportamento, dall'altro lato, invece, ad una sua visione riduzionista. Le polemiche si rovesciarono a cascata sugli studi del comportamento animale e umano degli anni 1950-70. Subito non si capì l'importanza di ciò che sosteneva Konrad Lorenz2 quando, ad esempio, parlava di “adattamento come acquisizione del sapere”, oppure di “stimoli liberatori di tipo sociale” o di “attività dislocata” o di “ridirezione del comportamento”. In sostanza si sollevò un problema inutile sulla terminologia, non sui contenuti. Ad esempio, il concetto di “attività dislocata” di cui parlava Lorenz fu quello che gli psicologi preferibilmente chiamavano “attacco deviato” nonostante in tutti e due i casi esistesse una situazione in cui si descrivevano dei conflitti interni ed esterni all'individuo. Era solo da far chiarezza tra cause mediate e immediate del comportamento, non altro.

Il fatto è che la psicologia evoluzionistica nacque e si diffuse soprattutto negli Stati Uniti d'America e il suo punto di riferimento non fu il comportamento animale in generale, ma fondamentalmente quello umano, soprattutto basato sui criteri selettivi del partner sessuale3. Si trascurò l'aspetto comparativo e l'importanza dello studio dell'origine filogenetica del comportamento. Ad esempio, si trascurò il fatto che gli uomini e le scimmie antropomorfe (scimpanzé, orango e gorilla), avessero molto in comune. Conoscendo il comportamento di questi animali, avremmo saputo molto di più sul nostro conto. Dovevano e potevano essere un punto di riferimento molto importante.

La comparsa del genere Homo (tra 1,5-2 milioni di anni fa) iniziò con un processo fondamentale per noi esseri umani: l'aumento vertiginoso del cervello. Esso diventò, nel vero senso del termine, un organo della mente, di una mente capace di veicolare il proprio pensiero e anche quello degli altri, di elaborare concetti, avere credenze, intenzionalità, coscienza, la capacità di ingannare e mentire in maniera molto più complessa di quanto potevano fare gli animali, anche di quelli più intelligenti.

Questi successi evolutivi hanno poi consentito di sviluppare un'intelligenza sempre più creativa che, prima con la gestualità e la mimica, poi con la prosodia e infine con l'uso di una fonetica, per dare l'avvio al linguaggio articolato, ossia all'uso della parola. Senza l'aumento delle dimensioni del cervello e delle sue funzioni corticali non si sarebbero potuti manifestare molti comportamenti che poi caratterizzeranno l’uomo, cioè l'uso di utensili, prima per difendersi e poi per cacciare, l'uso più articolato delle mani per svolgere attività, non solo manipolatorie degli oggetti, ma anche per accudire la prole e tenerla protetta a sé. Poi, l’uso articolato delle mani, la gestualità e successivamente quello della grammatica che doveva per forza di cose anticipare il linguaggio, divennero sempre più sofisticati anticipando lo sviluppo di una teoria della mente interdipendente4,5.

Si parlò, anche se molto sinteticamente, della socialità della mente, della coscienza, dell'intenzionalità ed anche dell'evoluzione del desiderio sessuale, perché sono stati argomenti fondamentali, se non primari, per la nascita e lo sviluppo della psicologia evoluzionistica. Questa disciplina è iniziata da una prospettiva storica (appunto darwiniana), citando le prime indagini psicologiche e poi etologiche del comportamento animale, umano e comparato. In sostanza, non è importante dover ammettere, o non ammettere l'esistenza della coscienza o di una teoria della mente, ma di stabilire, una volta definita la questione della esistenza e della validità scientifica delle indagini sugli argomenti appena citati, di stabilire se queste capacità, che valgono certamente per l'uomo, debbano valere anche per gli animali, soprattutto per gli animali a noi più prossimi, appunto gli scimpanzé. Discutere ancora della esistenza, o non esistenza di queste capacità negli animali, soprattutto negli scimpanzé, significherebbe cavillare su una questione inutile perché già chiarita. Una ridefinizione continua ed estenuante di ciò che distingue l'essere umano dall'animale, sarebbe solo una perdita di tempo. I livelli cognitivi e intellettivi raggiunti dagli scimpanzé non sono ovviamente come quelli raggiunti dalla specie umana, ma non per questo dobbiamo togliere qualcosa al valore qualitativo di queste funzioni negli animali, anche se con specificità diverse.

In sostanza, su che cosa allora si deve discutere, ammesso che ce ne sia ancora bisogno? Come aveva già suggerito Darwin e ribadirà successivamente la psicologia evoluzionistica, partire dai “livelli” superiori o inferiori (parlare di livelli è un errore antropocentrico), ci porterebbe verso una strada senza sbocco. Per esempio, sarebbe assurdo affermare che gli scimpanzé non abbiano la nozione del tempo e dello spazio, che non capiscano l'intenzionalità di un gesto umano, che non capiscano il punto di vista altrui, che non sappiano manifestare affetto, che non riescano a provare il senso del distacco e della morte, che non sappiano ingannare e comportarsi da disonesti, che non sappiano distinguere il bene dal male e che quindi non abbiano il senso della morale (specificando che qui si tratta della loro morale, non della morale umana). Gli scimpanzé hanno dei sentimenti e possono pure raccontarceli, anche se con il linguaggio dei segni (come quello adoperato dei sordomuti), che possono apprendere facilmente. Gli scimpanzé non parlano e mai potranno farlo solo perché non possiedono un apparato fonatorio adeguato alla emissione di suoni articolati, non per altro.

In conclusione, chi si è aperta allo studio del comportamento animale e umano, secondo una nuova prospettiva attraverso delle teorie evoluzionistiche darwiniane, è stata in primo luogo la psicologia evoluzionistica, solo che ora si dovrebbe lavorare di più sul confronto uomo-animale, non solo sull’uomo. Si può fare di più attraverso lo studio degli effetti della pressione selettiva sulla natura della mente animale e umana, senza dimenticare che le menti non sono solo il risultato puro e semplice di una lunga genesi storica, ma di strutture organiche che potrebbero avere avuto, nei nostri lontani progenitori, un’utilità diversa da quella di noi uomini attuali.

Note

1 Darwin, C. 1859. The origin of species by means on natural selection. London, John Murray (tr. it. L'origine delle specie. Torino, Boringhieri, 1967).
2 Lorenz, K. 1973. Die Ruckseite des spiegels. Munchen, R. Piper & Co. Verlag (tr. it. L'altra faccia dello specchio. Milano, Adelphi, 1981).
3 Buss, D.M. 1999. Evolutionary psychology: the new science of the mind. Boston, Allyn & Bacon.
4 Corballis, M.C. 2002. From hand to mouth. The origins of language. Princeton, Princeton University Press (tr. it. Dalla mano alla bocca. Milano, Raffaello Cortina Editore, 2008).
5 Tartabini, A. 2012. Fondamenti di psicologia evoluzionistica. Napoli, Liguori.