O è un regno di rettitudine o niente.

Questa frase pronunciata da Baliano, il fabbro del film di Ridley Scott Le crociate, mi colpì molto. Mi colpì perché tocca un punto molto sensibile, molto reattivo nel nostro profondo: le nostre convinzioni.

Fino a che punto è sensato mantenere le proprie posizioni, fino a che punto siamo disposti a scendere a compromessi, pur mantenendo l'intento di raggiungere un fine, a nostro giudizio, superiore?

Imparare, capire, conoscere non sono forse attività dell'essere umano che ci modificano, che ci portano a interpretare la realtà, ad accogliere i cambiamenti come conseguenza dello stesso maturare, dello stesso evolversi, del prendere coscienza di ciò che ci circonda giorno dopo giorno? Essere convinti della validità di un ragionamento, che quello che stiamo pensando sia giusto e ci possa portare a risolvere i problemi che man mano la vita ci pone di fronte, al contrario dei diamanti, non è per sempre.

Parafrasando il nome dell’associazione a cui appartengo, il “Centro di Gravità permanente che non mi faccia mai cambiare idea sulle cose e sulla gente” non esiste e non può esistere. Un’idea, un pensiero fisso, immobile, che non va modificato in quanto giusto in assoluto, per sempre. È un’assurdità già il solo scriverlo. Quindi non dovremmo rimanere ancorati alle nostre idee, a pensieri fatti diverso tempo addietro in condizioni diverse.

Eppure non sembra così facile ammettere i propri errori, non sembra così facile dar ragione agli altri e torto a noi stessi, tanto meno sembra facile farlo quando siamo convinti di aver ragione, quando abbiamo maturato delle convinzioni che hanno impiegato mesi, anni a rafforzarsi dentro di noi.

Credo che dovremmo prendere coscienza, una volta per tutte, della serietà della situazione che stiamo vivendo e dell’importanza delle decisioni che si adotteranno nell’immediato futuro. Se siamo assolutamente convinti delle asserzioni di una riga fa, dovremmo anche, di conseguenza, essere disposti a tutto pur di ottenere un cambiamento più o meno radicale del nostro modo di vivere e di intendere la nostra esistenza, come specie, su questo pianeta. Se siamo seri.

Personalmente mi piace pensare che il modo con cui conduciamo la nostra esistenza sia arrivato a un punto di svolta. Ci sono segnali più o meno inequivocabili che ci mostrano come il nostro stile di vita (quello che tutte le amministrazioni statunitensi hanno sempre definito “insindacabile”) sia, in realtà, deleterio alla continuità della vita stessa sul pianeta, così come la conosciamo. Forse ad un’anima sensibile basterebbe già questo per valutare un cambiamento di rotta. Ma ci sono anche altri segnali che ci arrivano dalla politica, dall’economia e da tutte quelle attività che l’uomo si è inventato per giustificare e sostenere una macchina da lui creata e che va, appunto, alimentata, che ci dovrebbero far prendere in esame la possibilità di un cambiamento, che potrebbero essere lo spunto per capire se un altro modo di intendere la vita e di organizzare le nostre attività sia possibile o meno. Personalmente non credo che questo sia l’unico modo per vivere, anzi.

Durante una chiacchierata con Fritjof Capra, mi lamentavo del fatto che il ’68 fosse stato azzittito sedando i ragazzi dell’epoca e che, sostanzialmente, avevamo buttato alle ortiche l’ultima vera possibilità di cambiamento radicale della società. Fritjof non era della stessa opinione perché, diceva, i vari movimenti verdi, new age, la consapevolezza del nostro ruolo nel mondo non sarebbero stati possibili senza il movimento studentesco dell’epoca. E qual era (o qual è) il dato fondamentale che emergeva con prepotenza nell’animo dei ragazzi e ragazze dell’epoca? Che tutto è uno, che ogni cosa è collegata con l’altra, che siamo parte di una rete che connette tutto. Tutto, quindi anche esseri totalmente dissimili tra loro, quello che noi definiamo “cose” e “esseri”, indipendentemente dalla distanza fisica o di specie. Tutto è connesso. In un universo sì fatto la diversità non è un ostacolo, ma un valore aggiunto. D'altronde non può essere diversamente: è razionale pensare che la vita per propagarsi scelga di differenziare le proprie ramificazioni, per garantire un’alta possibilità di successo.

Similmente è razionale pensare che per garantire l’evoluzione della nostra specie sia preferibile una diversità di pensiero, di opinioni, di conclusioni, invece del “pensiero unico”.

Fin qui, forse, siamo tutti d’accordo.

Peccato che, alla resa dei conti, questa teoria rimanga tale e trovi una difficilissima applicazione nella vita di tutti i giorni.

Perché?

Perché a differenza degli altri sistemi che popolano l’universo, sembrerebbe che noi esseri umani siamo gli unici a disporre della possibilità di riflettere su ciò che facciamo e ci succede. E non sempre è una possibilità che porta vantaggi.

Infatti, molto spesso, l’atto del riflettere si trasforma in rimuginare, nel dar vita a pensieri ossessivi innescando una spirale che, invece di innalzare la nostra coscienza, la trascina in profondità cieche e senza via d’uscita.

E più invecchiamo e più ci irrigidiamo sulle nostre posizioni; raramente il vecchio è saggio. Raramente sa mettere a frutto le proprie esperienze e, ancora più raramente, trae insegnamento dai propri errori. È più facile imbattersi in anziani cocciuti, piuttosto che sapienti.

E dato che la nostra società tende sempre di più verso la senilità abbiamo più probabilità di imbatterci in persone piene di pregiudizi, di preconcetti acquisiti durante la loro vita, piuttosto che illuminati aperti al dialogo.

Per questo troviamo grosse difficoltà dal passare dalla teoria alla pratica, perché pensiamo che gli anni passati su questo pianeta ci abbiamo fregiato di un qualche diritto a saperla più lunga degli altri e, sostanzialmente, ad avere ragione.

Mi piace ricordare la prima delle “101 storie zen” nella quale un uomo andava da un maestro per chiedergli consiglio, ma contemporaneamente, continuava a parlare sostenendo le motivazioni che lo facevano propendere per una soluzione piuttosto che per un’altra. Nel frattempo il maestro gli riempiva la tazza di tè fino a farla strabordare. “Attento maestro, sta facendo uscire tutto il tè dalla tazza!” “Vedi”, rispose il maestro, “la tua mente è come questa tazza. Non posso metterci nulla se prima tu non la svuoti.”

Svuotare la propria mente dai pregiudizi, cioè da opinioni e concetti che si sono stratificati dentro di noi con il passare degli anni. Quando ascoltiamo un’altra persona dovremmo essere in grado di ascoltarla realmente – dal latino porgere attentamente l’orecchio.

Nell’ascoltare, nel vero ascoltare, c’è l’atto di fiducia e di apertura verso l’altro più estremo: mi apro a te, mi offro a te. Senza tema di essere considerato esagerato, penso che l’ascoltare sia qualcosa di ancora più radicale dell’amare una persona, perché la persona che amiamo la conosciamo bene, sappiamo tutto, o quasi, di lei e, sostanzialmente, la accettiamo. Ma quando ascolto molte volte mi trovo davanti ad uno sconosciuto e “darsi” è ancora più estremo.

Ascoltare lo assimilo all’atto di fiducia totale che fa, per esempio, un cane quando si mette a zampe all’aria. Per lui quella è la posizione più vulnerabile, ci offre il suo ventre; in quel momento ci offre la sua stessa vita. Ascoltare è questo, aprirsi completamente all’altro.

Certo, questo non vuol dire dar sempre ragione all’altro, ma sentire cosa ha da dire, sì. Ed essere in grado di capire e di accettare che lui o lei, potrebbero avere ragione.

L’ego è utile, ma deve stare al suo posto.

Non c’è niente di più bello, utile, gratificante che imparare cose nuove, anche a sessant’anni. Soprattutto se sono cose che potrebbero aiutare a vivere in un mondo più equo e armonioso.

Dobbiamo solo scegliere di farlo, di essere più aperti e disponibili. È veramente una questione di scelta, non di forzatura, di sforzo. Se capisco che è utile alla mia evoluzione e a quella del mio prossimo, non è nemmeno una scelta, ma l’unica cosa sensata da fare.