Lesa è un gioiello all’estremo Nord del Lago Maggiore. Al confine tra Lombardia e Piemonte, in provincia di Novara. Una valle rigogliosa grazie anche all’acqua: quella del lago, del fiume e delle abbondanti piogge mescolate al vento che soffia dalle Alpi. E proprio grazie al clima, lungo il fiume Erno ha trovato la sua sede naturale l’azienda Herno che prende il nome proprio dal fiume. È stata fondata alla fin della Seconda guerra da Giuseppe Marenzi e la moglie Alessandra Diana. All’inizio produceva impermeabili, oggi il suo segno distintivo sono le cappe in piuma d’oca con maniche a ¾ e il gancio al quale sono appesi i capi in vetrina, icona Herno. Il presidente e amministratore delegato, Claudio Marenzi, anche presidente in carica di Confindustria Moda, dal 2000 ha preso le redini registrando una crescita costante del 25% l’anno. È un esempio virtuoso di media impresa italiana: grazie alla sua origine e conformazione a conduzione familiare, che ancora permane, mantiene una struttura interna leggera pur essendo ampiamente cresciuta negli ultimi vent'anni.

La pandemia ha inferto un grande contraccolpo anche al settore moda che vale un giro di affari di 97 miliardi l'anno, 60mila posti di lavoro che diventano 1 milione se si conta l'indotto. Quasi 50 mila aziende, con una media di 20-25 dipendenti. Inoltre, il 79% circa del fashion di lusso è destinato agli stranieri, asiatici, arabi, russi, i più predisposti al luxury e tra i maggiori investitor nel turismo, che alla moda è legato (shopping made in Italy, sfilate etc). Il virus ha rallentato tutto. Anche Herno deve farci i conti. A Claudio Marenzi abbiamo chiesto la sua visione at large.

La pandemia sta cambiando il business?

In generale non cambierà molto. Ci saranno accelerazioni su quello che è già in corso, per esempio l’e-commerce, un approccio più digitale, lo smart working. Credo che questa sarà una spinta circoscritta a un periodo. La vita è già ripresa. Sul lago i ristoranti lavorano, sull’autostrada per Milano c’è la coda. Invece la mobilità intercontinentale soffre, ma torneremo a fare i turisti, viaggeremo di nuovo, perché l’essere umano è un animale sociale. Detto questo nel nostro settore e tutto l’indotto ci sarà un fermo di due anni. E anche i trasporti e il turismo avranno gravi problemi nel 2021. Una stasi che, a parte la guerra, il capitalismo non ha mai conosciuto. Il mercato riprenderà, ma ci vuole molto tempo”.

Quanto ha perso il settore?

La primavera-estate 2020 ce la siamo giocata: a giugno le vendite erano meno 85%. L’autunno-inverno registra una diminuzione degli acquisti tra il 15% e il 35%. Nel 2021 è ragionevole aspettarsi una compensazione del 2020: verrà messo sul mercato l’invenduto di questa primavera, ma i consumi saranno ancora bassi. È prevedibile un ritorno a una quasi normalità forse nella seconda parte del 2021, anche se con segno negativo.

Herno come si sta preparando?

Tutti dicono che bisogna rallentare. Io penso il contrario: bisogna essere veloci rapidi con idee molto chiare e pronti all’audacia, da qui a un anno. Nel breve servono decisioni rapide, contenere costi, tenere sana l’azienda; decidere con tempismo la proposta delle collezioni che devono adeguarsi a un nuovo consumatore più local, vista la drastica riduzione del turismo straniero. Questo fino a tutto il 2021. Su quello che accadrà dopo invece serve iniziare da ora a ponderare con un pensiero lento e una grande riflessione.

L’e-commerce può salvare?

È una soluzione ora necessaria. Nell’emergenza funziona, anche se mi sembra un canale sovrastimato. È legato molto alla dinamica del prezzo, quindi agli sconti. Sarà accelerato il processo per renderlo però non solo legato al prezzo. Noi lo tenevamo di scorta. Siamo cresciuti negli ultimi 15 anni passando da meno di un milione a 130 nel 2019. Una crescita di quasi 130 volte attraverso la vendita “analogica”. L’e-commerce lo abbiamo pensato per quando il marchio fosse percepito a livello globale. Ora abbiamo dato un’accelerata e questo canale e sarà parallelo agli altri, in qualche momento potrà essere utile a recuperare anche la parte dei clienti lontani. Ma si tornerà a viaggiare, ripeto, quindi l’e-commerce non può diventare strategico, ma solo uno degli strumenti di vendita.

Che cosa della vostra struttura ha funzionato di più superare il lockdown?

Le persone, che hanno difeso l’azienda per difendere la propria posizione. Non è scontato. C’è stato uno scambio di solidarietà. È emersa la natura famigliare dell’azienda, percepita come entità comunitaria. Si crea e si distribuisce una ricchezza. Lo staff è rimasto intatto, nessun licenziamento.

Cambi di strategie e innovazioni?

Nessun cambio, andiamo avanti anche sulla sostenibilità, sulla quale già si lavorava. C’è un tema nuovo che riguarda tutti e che il Covid ha evidenziato con i presidi usa e getta: il monouso non rientra nell’economia circolare, lo smaltimento è difficile e in più sono materiali infettati. È un tema che il mondo dovrà affrontare. Non tocca particolarmente Herno. Tocca la collettività, ci sarà un’accelerazione su questo e certe innovazioni saranno allargate a molti settori. Magari dopo il vaccino dovremo portare comunque la mascherina, che potrebbe diventare come la sciarpa o come il cappello negli anni Cinquanta. Sono piccolezze che forse rimarranno nel lungo termine.

Durante il lockdown avete fatto una donazione a ospedali e Comuni di camici e mascherine monouso: avete modificato macchinari? Pensate di continuare?

Abbiamo prodotto giornalmente 600 camici da medici con un materiale antibatterico. È un’idea nata perché un amico primario era disperato: facevano i camici con le lenzuola. L’azienda è rimasta aperta a turni con il personale retribuito e ci siamo resi utili alla comunità. Tra marzo e aprile i Comuni limitrofi non avevano mascherine da distribuire: con gli stridi (avanzi, ndr) le abbiamo realizzate e donate. Non ho voluto sapere quanto costava: l’ho fatto pro bono, senza convertire la produzione che si è già chiusa come esperienza: è totalmente diseconomico, come ricavare uno stuzzicadenti abbattendo il tronco di un albero. (sorride)

Personalmente come sta vivendo l’epidemia?

Avevo una media di quattro notti a casa in un mese perché ero in giro per il mondo. In quarantena ho recuperato un’interiorità che mi mancava molto. Sono rimasto a casa e in azienda. Ho goduto i profumi del lago, i paesaggi. Un recupero di un privato che avevo perso, mi sono reso conto di poter vivere meglio a questi ritmi, ma perché sono un privilegiato e questo mi ha fatto capire che la teoria della decrescita felice è inapplicabile. A parte la tragedia, i morti, questo evento è una prova di decrescita felice. Chi decresce dall’alto però perde poco, chi parte dal basso rischia l’indigenza. È un sistema che non può essere applicato alla nostra società, legata profondamente al consumo. Non si può demonizzare ed essere pauperisti, perché porta a un impoverimento di tutti colpendo i più deboli.

Ripensare le modalità di consumo includendo i più fragili?

In teoria sì, se ne sta parlando: migliore distribuzione. Non credo però che finita l’emergenza si andrà in questa direzione. Magari si penserà di più in termini di sostenibilità etica, ma temo che disoccupazione, povertà, diseguaglianze aumentino. E questo non fa bene a nessuno.

Sostenibilità ed etica le vede applicabili?

Io mi reputo presuntuoso e penso di averla messa in atto nel modo di fare impresa. Siamo attenti alle marginalità. Le aziende si valutano con il metodo, molto anglosassone, “performanti e non performanti”. Questo fa sì che tra i due estremi si produca un’aggressione verso i fornitori o verso il mercato. Noi siamo attenti al bilanciamento qualità prezzo. Andrebbe modificato il metodo di valutazione: non solo per i risultati economici ma anche per una sensibilità etica, ecologica. Molti imprenditori la pensano così, è connaturato nella nostra storia e cultura. Olivetti docet. Nel nostro Paese ci sono tanti “Olivettini” e mi sento di dire che siano in aumento. Quello che per anni, criticandolo, è stato definito “nanismo” dell’imprenditoria nostrana, ora forse si rivaluta. Bisogna vedere se si proseguirà in tale senso. Le opportunità ci sarebbero.

Smart working?

È stato utile all’apice dell’emergenza. Personalmente sono contrario, mi piace la relazione, che il personale faccia le sue ore non di meno, non di più cosa che lavorando a casa capita. Però daremo la possibilità di poter scegliere, saremo più flessibili sulle esigenze specifiche, anche il dipendente lo chiede. In azienda l’80% sono donne che si sa devono ancora fare il doppio lavoro. Restiamo open mind.

Dice Confucio: grande è la confusione sotto il cielo. La situazione, quindi, è eccellente. Si adatta a questi tempi?

Può essere, se si colgono le opportunità.