Dieci anni fa Luciano Comida, autore per Einaudi Ragazzi di bellissimi libri con protagonista il ragazzino Michele Crismani, mi propose di scrivere un libro a quattro mani. Avrei accompagnato Michele (e Luciano) in India, dove avremmo ambientato una nuova avventura: il ricavato del libro avrebbe supportato la NGO Indiana con cui a quel tempo collaboravo.
Luciano ci ha lasciati prima che potessimo iniziare a scrivere.
Dedico a lui questa storia.
È una storia realmente accaduta a Trieste, nell’estate del 1974. Anche il protagonista e voce narrante, Paolo, esiste davvero.

Eccoci qui. Fregati.
Io non sono un grande giocatore anzi a dirla tutta, come dice mio nonno, ho due piedi sinistri, ma sono bravo a fare funzionare le cose.
Ci ho messo due mesi a tirare su il campionato, ho quattro squadre che si sono allenate anche quando al campetto si sudava come fontane alle due del pomeriggio o quando pioveva e si giocava nel fango, e ci ho messo settimane a convincere quelli che giocano nel San Giovanni -e loro sanno giocare davvero- a mettere su degli allenamenti come si deve.
E ho trovato il campo, quello dietro alla chiesa che va beh, ha un lato storto, ma funzionava. I campi dovrebbero essere dei rettangoli regolari con quattro angoli retti, questo invece ha un lato sghembo, ma funzionava. Io sono bravo a fare funzionare le cose.
Abbiamo messo su quattro squadre di cinque giocatori: Dreher, Boschetto, Real e Universitas. Io gioco nell’Universitas, e non è che siamo proprio fortissimi, ma non siamo stati eliminati, insomma ci difendiamo anche perché Livio che sta in porta è micidiale. Noi alla porta avversaria non ci arriviamo quasi mai, però loro nella nostra non entrano perché anche se ha solo undici anni e ha pure gli occhiali, Livio quando gli sparano una palla in porta, vola.
E ora il campetto ha chiuso. E noi abbiamo chiuso.
Stiamo a ciondolare davanti al bar Alcide, il morale basso che più basso non si può, passiamo ore seduti sul muretto a fare ciondolare le scarpe da tennis nel vuoto. Fregati.
Devo inventarmi qualcosa.

Ieri mattina sono uscito presto, e ho oltrepassato il Muro. Nessuno di noi lo ha mai fatto anche se il cancello ora è aperto, ma questo posto un po’ fa paura perché dentro ci sono i matti.
La mamma di Andrea (che gioca nella Dreher) dice che è pericoloso, che i matti adesso non sono più rinchiusi e che ci possono essere dei pazzi omicidi, e che non si può mica lasciarli in giro. Al bar da Alcide dicono che quello che ha aperto l’ospedale è più pazzo dei pazzi. Mio nonno però dice che nessun uomo deve essere rinchiuso, e che l’ospedale psichiatrico era un posto terribile e che quello che lo ha aperto non è un pazzo ma un santo.
Salgo una strada a tornanti, non si vede in giro nessuno. Non credo ai miei occhi: c’è un campo di calcetto, sembra abbandonato da un sacco di tempo ma ha gli angoli retti e le porte hanno anche la rete, che dai preti non c’era.
Riunisco le squadre.

“Ho trovato un nuovo campo”. Pausa ad effetto. Tutti mi guardano a bocca aperta. “Lo occupiamo”.
Grida selvagge, roba da tifoseria, solo Andrea (sempre quello che gioca da terzino nella Dreher) si oppone. “Non si può, è pericoloso, e poi se mia mamma sa che sono entrato la dentro mi scuoia”.
“Ma sei scemo? Mica glielo diciamo a casa. È un segreto”.
Li fisso, uno alla volta, altra pausa ad effetto. Scandisco le parole.
“Chi ci sta metta il dito qua sotto.”
Allungo il braccio, mano voltata in basso. Venti braccia e venti dita.
Ci siamo tutti.

Io sono bravo ad organizzare le cose, la mattina dopo siamo al campetto nell’Ex Ospedale Psichiatrico ad allenarci: il campionato riprende tra due giorni, Universitas contro Real.
“Cercate di non fare troppo casino, se no ci beccano e ci mandano via”.
Giochiamo quasi in silenzio ma quando Dreher perde ai rigori contro Real tutti sbroccano che sembra un attacco Apache.
Dita incrociate, speriamo che nessuno abbia sentito. Domani tocca a noi.

Eccoci in campo, fa un caldo tremendo abbiamo le magliette fradice i capelli incollati sulla fronte e il fiato corto, stiamo perdendo terreno e io a calcio proprio non sono un grande giocatore, ho tredici anni e sono alto per la mia età e veloce, ma la palla non mi sta attaccata ai piedi, è come una cosa che ho letto sulle cariche elettriche che se hanno lo stesso segno si respingono: se i miei piedi toccano la palla, quella schizza via.
Siamo quasi alla fine del primo tempo, e Sandro Visentin spara un gòl di testa nella nostra porta. Sandro Visentin! Visentin gioca peggio di me, non ha mai fatto un gòl in vita sua! Ma che cavolo di giornata, peggio di così non poteva andare.
E invece il peggio deve ancora arrivare.
A bordo campo ci sono 5 tipi vestiti di bianco che chiedono chi ha organizzato la partita e quel fetente di Andrea con la faccia paonazza tende il braccio e mi indica. Vigliacco.
Silenzio di tomba, mi fanno segno di avvicinarmi, e io mi avvicino come uno che va al patibolo.
Ho la bocca secca.

“Scolta, podemo far due tiri con voi?”.
È uno scherzo, e poi arriva il cazziatone?
“Beh sì, certo, dovremmo finire la partita…”.
“Ma sì, mica oggi, veniamo domani, vi va bene alle tre?”.

Formiamo una squadra mista, con i più forti. Questi sono adulti, sono molto più grossi di noi, e ci dobbiamo difendere.
Alle quattro arrivano, si cambiano le scarpe e si schierano. La partita è tostissima, noi ci dimentichiamo del patto del silenzio e dalla panchina urliamo come forsennati. Finisce in pareggio.
“Bravi muli, giocate bene! Domani alle quattro?”.

Insomma, questi sono simpatici e non hanno nessuna intenzione di mandarci via o di chiamare i nostri genitori per denunciarci, c’è andata di lusso!
Ma dopo otto partite la fortuna ci volta la faccia.
È mercoledì, una giornata grigia afosa appiccicosa e già non sono di buon umore perché sono indietro con i compiti delle vacanze e mio papà ha minacciato di mettermi agli arresti domiciliari fino a quando non ho finito tutta matematica e storia.
Arrivo al campetto e tutti hanno un’aria funerea, nessuno si sta neanche riscaldando. Gli infermieri hanno le scarpe bianche, niente scarpe da gioco. Qualcosa va molto storto.

“Vien qua Paolo, il nostro capo vol parlare con ti”.
Il capo infermiere se ne sta in disparte, sulla collinetta dietro al campo, mi avvio come uno che va al patibolo con la bocca secca e il cuore che martella, ma cerco di non farlo vedere.
Il capo è un ormone con gli occhiali e una espressione indecifrabile ma non sembra minacciosa.
“Ciao, senti ho una proposta”.
“?”.
“La fareste una partita contro i miei pazienti?”.
“I matti???”.
Stringe gli occhi dietro agli occhiali e si mette a ridere.
“Sì, una partita da matti!”.
“Due condizioni: io faccio l’arbitro e voi perdete. E poi continuate il vostro campionato non più da abusivi, vi do io il permesso di usare il campo”.
Cosa posso rispondere? Certo che va bene.
“Ottimo, ottimo. Domani può andare?”.
Cosa posso rispondere: va bene.

Giovedì, ore 15:30, sono al campetto a fare riscaldamento. Il capo arriva, e vuole di nuovo parlarmi. “Ascolta, sarà una partita un po’ diversa dal solito: non ci sono regole”.
“Come non ci sono regole???”.
“Niente regole. Unica cosa: per favore state attenti che nessuno si faccia male. A fine partita, gelato per tutti”.

Il campetto è affollato. Abbiamo cinque uomini in campo e quindici in panchina, dieci degenti e otto infermieri a bordo campo. Il loro capo è vestito come al solito, pantaloni e camicia maniche corte stropicciati, e ha un fischietto al collo.
Arriva la squadra avversaria, quattro uomini e una donna.
La tipa ha una gonna lunga verde con i fiori, poi c’è un tipo lungo e magro come un’acciuga che guarda per aria, uno con una faccia da matto (beh…) basso ma tutto muscoli, uno vestito che sembra più un prof di latino che non uno squinternato e uno che potrebbe essere mio nonno.

Le squadre entrano in campo, l’arbitro fischia e comincia il putiferio.
Il tipo Mr Muscolo acchiappa la palla con le mani e si butta verso la porta come un bisonte nella prateria, si butta in rete sempre aggrappato alla palla.
Livio invece in porta proprio non ci sta, quando ha lo ha visto arrivare è corso fuori campo come una saetta.
Il gioco riprende, la tipa si impossessa del gioco, e la miseria gioca di brutto, con la sottana che le si attorciglia tra le gambe, la palla a momenti manco si vede, sta sotto la gonna. Giulio che è attaccante nel Real si sgola dalla panchina: “Vai Chinagliaaaaaaaaaa!!!!”.
Ci rifilano un altro gòl.
Il tipo allampanato non gioca. Balla.
Se ne va in giro per il campo a fare la Fracci, braccia per aria, saltella sulla punta dei piedi, come se ascoltasse la musica nella sua testa.
L’arbitro oramai fischia a casaccio, e si sbellica dalle risate.
Il nonno ciondola davanti alla porta e invece che guardare il gioco si fissa le punte delle pantofole.
Tanto nessuno dei nostri si avvicina neanche all’area di rigore, manco fosse un terreno minato.
Quello che sembra un prof di latino palleggia di testa, e neanche male, e ogni tanto fa la ola e si mette a correre intorno al campo, così, quando gli gira.
E poi ci sono i nostri, impazziti.
Giocano con i gomiti le ginocchia le mani si spintonano tra di loro, fanno i cretini più cretini del mondo, Stelvio canta “E la vita la vita” facendo l’imitazione di Cochi e Renato da solo, Gianni fa la ruota sulle mani, la panchina sembra una discoteca, riserve e matti che saltano come indemoniati.
Beh, io sono bravo ad organizzare le cose, ma questa roba non la avrei mai potuta inventare.

Il bisonte caccia se stesso e la palla in rete otto volte di fila e la partita finisce dopo un tempo solo, poi tutti da Alcide a vuotar il frigo dei gelati.
Ci siamo tutti, Dreher, Boschetto, Real e Universitas. E il capo, e gli infermieri, e i matti.
Mica il solito ghiacciolo, gelati di quelli fighissimi che mia mamma non mi comprerebbe mai, Mambo Pralinato, Cono Atomic, Piedone, e naturalmente a grandissima richiesta la Coppa dei Campioni.
Il capo si sbafa un cono Zaccaria, poi si guarda in giro e mi fissa. Si avvicina e mi dice: “Grazie. Bella partita” e tende la mano, io tendo la mia e con la bocca piena dico: “Paolo Vinattieri”.
Lui me la stringe e dice: “Molto piacere, Franco Basaglia”.