Lo sconvolgimento, le valutazioni, la scelta. In pochissimo tempo, essendo passati da un clima da festival alla tragedia. Giuseppe Di Leva ci porta indietro di quarant’anni con tono di voce tranquillo che accresce il pathos: nell’ascoltarlo sembra di essere al Cantiere d’Arte di Montepulciano, il 2 agosto del 1980. Il giorno della bomba alla stazione di Bologna: 85 morti, duecento feriti, nessuna chiarezza sui mandanti dell’orrore.

In cartellone a Montepulciano il debutto di Pollicino, l’opera che Hans Werner Henze, fondatore del Cantiere, aveva composto per i bambini. Librettista Giuseppe Di Leva.

L’antefatto: il primo agosto 1980 Di Leva parte da Milano con Carlo Fontana, in seguito sovrintendente della Scala, su una Dyane 6, o un’altra auto del tipo scapestrato che usava allora. È diretto a Montepulciano per la prima di Pollicino, scritto da qualche mese e realizzato dai bambini del luogo ai quali era destinato. Prima di partire Di Leva passa a salutare il sindaco Carlo Tognoli, non lo trova e lascia il numero dell’albergo di Montepulciano. Con lo spirito: se gli va chiama lui per un ciao, sennò buona estate e arrivederci.

Il sindaco telefona, ma non per un saluto solare. Racconta Di Leva: “La mattina dopo vengo svegliato intorno alle 11,15 perché naturalmente avevo fatto tardi, e Tognoli mi dice: ‘Ma tu sai che è successo? È saltata per aria la stazione di Bologna’. Ricevo la notizia da lui a circa un’ora dal disastro. Una delle caratteristiche molto particolari del Cantiere era che siccome gli artisti non venivano pagati gli davano vitto e alloggio, e la mensa era in una scuola ai piedi del paese. Ci troviamo proprio lì, poco dopo. Siamo tutti sconvolti, anche perché di attentati ce n’erano in continuazione e ci chiedevamo quando sarebbe finita. Nel pomeriggio comincia la discussione: Si fa o non si fa?”.

Decisione della quale riecheggia la difficoltà ancora oggi.

Da una parte è vero che fare Pollicino in una giornata di lutto nazionale, uno dei più significativi del dopoguerra non sarebbe opportuno, dall’altra, però, è anche vero che i bambini… che ne capiscono? Non era come adesso, quando lo saprebbero prima di me perché stanno attaccati al telefono tutto il giorno. Allora sentivano dire la sera che era accaduto qualcosa, ma fino all’indomani non scoprivano altro. E, quindi, chi gli andava a dire, dopo mesi e mesi di studio, lavoro, prove: non si fa più? Mettere su uno spettacolo è divertente, ma anche un bel sacrificio e i ragazzini coinvolti erano una cinquantina fra orchestra e cast, e poi c’era la platea.

Io stavo dalla parte del farlo. Se fossimo stati lì per uno spettacolo qualunque, non qualunque nel senso di meno importante, sarebbe stato giusto il lutto nazionale, ma con i bambini è diverso. Anche perché loro danno allo spettacolo un po’ un senso di rinascita, molto più degli adulti.

Henze era favorevole ad andare in scena?

Con dubbi. Più dubbi di me. Però alla fine, sì. D’altronde non era sbagliato avere dei dubbi. Nessuno era così convinto né nel farlo né nel non farlo. Si consideravano le ragioni di quelli che la pensavano diversamente. Prevalsero le ragioni di chi voleva farlo e secondo me è stato giusto così.

C’è un video della RAI, molto interessante, che s’intitola Il canto degli uccelli ed è diviso in due sezioni: il Cantiere in generale, con le interviste alla popolazione su che cosa ne pensa e che cosa si aspetta da questo Pollicino interpretato da figli e nipoti, e la registrazione dell’opera.

Fu un successo?

C’era una tale tensione che sarebbe potuto andare malissimo o benissimo, vie di mezzo non credo ce ne potessero essere. Andò benissimo, molto vivace. Naturalmente con delle ingenuità: erano bambini e l’orco lo faceva il camionista del paese che stonava di continuo però era molto bravo, molto espressivo. E in quest’opera conta più questo che non l’esecuzione perfetta, ammesso che ci sia un’esecuzione perfetta. Gli adulti erano non professionisti, forse uno cantava nel coro del paese, tutto lì.

C’è un particolare divertente: Eleonora Contucci ha cantato una delle figlie dell’orco negli anni Ottanta, poi è stata la moglie dell’orco e, nell’ultima edizione, faceva la moglie del taglialegna che è la madre di Pollicino, e tra i suoi figli c’era il suo vero figlio.

Come era nato Pollicino?

La cosa era stata inventata da Henze un anno prima, nel 1979. Io ero andato a Montepulciano perché lui mi aveva chiesto uno strano copione tratto da La muta di Portici, tradotto in balletto, non con le musiche di Daniel Auber, ma con musiche del melodramma italiano eseguite da bande della zona, che si intitolava *I muti di Portici. Ci avevamo lavorato insieme un week-end e dopo mi ero arrangiato io. All’inaugurazione Henze mi dice che vorrebbe fare una favola per l’anno venturo e mi chiede se voglio scrivere il libretto. Passo l’estate a leggere favole e arrivo con due o tre proposte: lui sceglie Pollicino e cominciamo a scrivere.

Henze aveva un’idea didattica, forse derivata dalla Germania di Weimar: una comunità che si fa la propria musica, che la esegue, che se è capace se la compone anche, insomma una comunità che si riunisce intorno a un linguaggio internazionale che non ha bisogno di traduzioni. Io sono convinto che anche adesso, con tutte queste questioni di altri popoli, etnie, migranti, sarebbe utile. Uno arriva dalla Libia e non capisce niente dell’italiano però la musica la può capire.

Henze voleva lasciare un’eredità ai ragazzini di Montepulciano. E, in effetti, un mucchio di ragazzi ha fatto mestieri che non credo avrebbe mai scelto se non ci fosse stato il Cantiere. Chi è cantante, chi è editore, chi ufficio stampa, chi tecnico, chi datore luci. E poi Pollicino è diventato una specie di colonna sonora della città: hanno fatto una mostra su De Chirico e ce l’hanno messo. Il Conservatorio si chiama Henze.

L’opera è fedele alla favola?

Sì, è abbastanza fedele all’originale che è tradotto in italiano da Collodi. Abbiamo cambiato l’orco che è troppo truculento, mangia le sue sette figlie e cose del genere che a fine Novecento sembravano un po’ fuori luogo, eccessive. Il problema è la concezione diversa dell’educazione cioè la favola nell’Ottocento aveva anche la funzione di spaventare i bambini, era catartica. Nel Novecento sono cambiate la psicologia e la pedagogia, quindi ci sono le favole rosa, che a me non piacciono, oppure c’è la possibilità di interpretare in modo differente le favole feroci. Io tendevo, e tendo a pensare ancora, che le favole un po’ debbano spaventare quando il contesto intorno è di serenità. È uno spavento funzionale: i bambini si divertono a essere spaventati, tanto sanno che non è vero. E sono contentissimi di non essere messi nel forno. Mentre se li lasci un minuto in una stanza buia non sono contenti perché quello è vero.

E allora con Henze abbiamo reso l’orco buffo: si esprime in modo bizzarro, fa parte del sindacato degli orchi, dice frasi minacciose ma comiche, fa la fine di molti tiranni e la gente ride (con altri tiranni, purtroppo, non si ride). Insieme a Pollicino, l’orco è il personaggio più applaudito. Lo facevamo andar via attraversando un fiume e i “pollicini” se ne andavano per i fatti loro cantando una canzone toscana, modificata, sulla primavera.

Pare che sia l’opera più rappresentata per bambini.

Già a dicembre dell’80 l’ha fatta il Covent Garden, in un teatro dove facevano spettacoli per bambini a Natale. E poi non si più fermata, fino a quest’anno, quando il virus ha colpito il quarantenne Pollicino, ormai un signore. In questo, più ancora che in altri spettacoli, tutto è basato sulla vicinanza, inoltre controllare i bambini e fargli tenere la distanza sociale penso non sia possibile.

Un’edizione particolarmente felice?

Ho in mente quella di Daniele Abbado con delle bellissime scene di Tiziano Gregori. Poi quella del Maggio Musicale Fiorentino al ridotto del Comunale di Firenze dove però tutto era molto agglomerato e che diventerà più bella al Regio di Torino sul palcoscenico grande. Ma di straniere ne ho viste poche. Gira molto in inglese e in tedesco con la traduzione di Henze. Dove potevo avevo usato Collodi e poi avevo messo dentro canzonette e siccome lo stavamo scrivendo a Marino facevo cantare all’orco ‘Na gita a li Castelli. Insomma c’erano tanti pezzetti molto italiani fra il modo di dire, il proverbio, il folklore, Collodi. Tutto mescolato, troppo complicato per un traduttore, e allora la traduzione l’ha fatta Henze, sia in tedesco che in inglese. In Francia è arrivata solo nel Duemila prima a Parigi e poi a Montpellier.

2 agosto 2020. Con la testimonianza di Giuseppe Di Leva celebriamo il quarantesimo di Pollicino, ma sarebbe emozionante rivederlo a Montepulciano, in palcoscenico o anche nel documentario della RAI. Molti anniversari caduti quest’anno sono stati rinviati a causa del periodo pestilenziale. Chissà, magari Pollicino festeggerà il 2 agosto 2021, 41 come fossero 40, per ricordare l’unico spettacolo rappresentato in Italia in ore sciagurate.

I bambini di allora avranno una cinquantina d’anni e anche parecchi degli adulti, che erano giovani, sono vivi. Un intero Paese si riconoscerebbe. Grato a Henze. E un po’ anche all’orco.