Permaneva in me da tanti anni.
Controfigura di un’anomalia fisica.
Come quelli che hanno un rene più piccolo o un terzo capezzolo.

Convivevo con questa alterazione senza più accorgermene.
Facevo le cose che rendono una vita appagante con cui il sistema si rassicura nei tuoi riguardi, ti assegna un codice, una password con cui superare le ispezioni quotidiane della normalità, della consuetudine, del nulla di cui ci nutriamo. Ero sposato, avevo figli, ero un buon imprenditore, andavo in montagna ad arrampicare e a sciare, studiavo per prendermi - dopo quella in Economia e Commercio - la seconda laurea a 50 anni in Biologia. A volte il compiacimento derivato da ciò si sbriciolava, come se tutto il me che mi sosteneva equivalesse a zero.

Non era un mio chiodo fisso, stavo anche del tempo senza pensarla.
Io stavo bene con mia moglie e i miei ragazzi.
Anche da solo.

Tuttavia c’erano giorni in cui non mi “tornavano i conti”, e la voglia di quella donna e il solo desiderio di fantasticare, ingurgitava tutto, anche le cose che onoravo della mia vita. In quegli attimi avrei voluto essere con lei, in silenzio senza guardarsi in faccia, come sempre del resto.
Un giorno di tanti anni fa a Vienna, facendole notare qualcosa in una vetrina mentre era di fianco al suo fidanzato, la tirai verso di me senza preavviso, prendendola per mano. Lei d'istinto strinse forte per poi allentare. Senza che il mio cervello desse impulsi programmati, ristrinsi forte e sentii le sue falangi lasciarsi andare nel mio palmo. I suoi polpastrelli caldi, protetti e imprigionati dalla mia mano, il mio cuore aumentato in frequenza, il nostro piacere liquefatto mentre la mia fidanzata a tre metri rideva col suo.

Noi riflessi nel vetro con le facce concave a dirci cose che non sapevamo, in silenzio.

Lei ed io parlavamo moltissimo quando eravamo in compagnia di altri, ma se casualmente rimanevamo da soli diventavamo taciturni e non ci guardavamo in faccia; c’era tensione, c’era timore di uno spazio tutto per noi che svaniva all’avvicinarsi di qualcuno. Nel mezzo di cene affollate, distanti l’una dall’altro, tra braccia con bottiglie di vino e piatti fumanti, ci capitava di incrociare lo sguardo e senza sosta, per un tempo non definibile, ci fissavamo come quando fai l'amore. Era bellissimo, riuscivamo a parlare di noi solo in quel modo. Un giorno la mia fidanzata e il suo fidanzato sono diventati mia moglie e suo marito.

Continuiamo a frequentarci come facciamo da quando abbiamo vent’anni, ora con figli e altri amici di vita. In tutto questo tempo non ci siamo mai detti niente, rimanendo dentro alle nostre vite esterne e lavorando sodo con i nostri compagni di vita. Uniche tracce del nostro tormento invisibile, piccoli dettagli come i nostri sms a mezzanotte in punto negli ultimi dell’anno che non passiamo insieme; i regali che ci facciamo qualche giorno dopo i nostri compleanni, dopo quelli ufficiali fatti dalle famiglie nel giorno giusto; un suo bacio nei pressi delle mie labbra in Stazione Centrale dopo un incontro fortuito, e come sempre teso, sul treno per Milano.

A nessuno dei due - credo di poter parlare anche a nome suo - è mai venuto in mente di esplicitare il nostro tumulto, scegliendo questo amore muto, innocuo e feroce, attraverso un codice criptato sconosciuto anche a noi.

Continuiamo a vivere dentro questo nostro sistema godendo di ciò che sappiamo di essere l’uno per l’altra, ritagliandoci frammenti di intimità, come passarsi una bottiglia d’acqua che ci farà sfiorare le dita, o stendere un bucato durante una vacanza al mare ascoltando il respiro asincrono con quell’affanno impercettibile che ci avvolge appena siamo vicini fisicamente, e che solo noi possiamo captare. Durante una notte insonne recente ho pensato che quel giorno viennese avremmo dovuto fare qualche passo in là, entrare nel primo portone e prenderci in piedi, in un sottoscala come due randagi, stando l’uno dentro l’altra, leccandosi e proteggendosi, senza dover spiegare niente.

Ascoltando i nostri lamenti, cercando di attutire il rumore delle nostre anime afone.