Sulla coscienza sono stati scritti molti libri e articoli scientifici, ma per ora la conclusione è che nessuno pare che sappia che cosa sia veramente.

La realtà è che saremo in grado di saperne qualcosa quando capiremo, come funziona il cervello, umano o animale che sia, nella sua totalità e complessità biologica.

Si può aggiungere, per ora, che la coscienza è una funzione psicologica privata, vissuta in prima persona e quindi irriducibilmente soggettiva.

È una proprietà emergente, una categoria ontologica del mentale. Non è una realtà epistemica. La coscienza non ha una dimensione spaziale. Si tratta di un processo e non di una cosa. Sopravviene sul fisico e dipende totalmente dai corrispondenti stati neurofisiologici del cervello.

Allora, a questo punto, quello che dovremmo chiederci è come i processi neurobiologici, che avvengono nel cervello, causino la coscienza.

A questo scopo sono state messe in campo molte teorie, persino un tentativo sulla base della meccanica quantistica. Alcuni scienziati hanno detto che per venirne a capo dovremmo invece pensare alla coscienza come a un processo adattativo di correlati neuronali minimi e integrati. Sono tutte ipotesi molto interessanti e complicate, ma alla fine non ci hanno mai fornito una risposta definita su che cosa sia la coscienza.

Di fronte a queste difficoltà, in un certo senso, invece di andare avanti nella ricerca, si è tornati indietro. Ad esempio, per il filosofo Donald Davidson le leggi che regolano gli eventi mentali, quindi anche quelli della coscienza e gli eventi fisici, sono identiche tra loro (teoria dell'identità), anche se, aggiunge Davidson, il vocabolario (per esempio quello della lingua inglese) usato per descrivere la coscienza non può essere sempre ricondotto a quello della fisica, come se il pensiero non possa essere tradotto totalmente in parole. Questa non è una spiegazione plausibile della coscienza e non può essere nemmeno giustificata dalla limitazione del nostro vocabolario. I limiti non sono solo linguistici. Accettare questa idea, sarebbe una sconfitta, una sorta di ritorno alla concezione dualistica cartesiana della coscienza.

Nonostante tutto, è la psicologia scientifica che ha fornito, per ora, una spiegazione il più attendibile possibile della coscienza. Si tratta di un insieme di processi psicologici che vanno da quelli più semplici, gli atti riflessi a quelli più complessi, come gli atti volontari, le sensazioni, la formazione delle immagini, le emozioni, la memoria, l'attenzione, le motivazioni, eccetera. In sostanza, un insieme di processi che Wilhelm Wundt, il fondatore nel 1879 della psicologia come disciplina scientifica e finalmente autonoma dalla metafisica, chiamò “sintesi creativa”.

Comunque sia, la coscienza non è solo questo, è qualcosa di ancora più complesso perché ci consente di conoscere, ad esempio, la gioia, la sofferenza, l'innamoramento, di vivere degli stati mentali come quelli agonistici, sessuali, cooperativi, affiliativi, di prendersi cura di noi stessi, degli altri, di divertirsi e di nutrirsi. A proposito del nutrimento, il filosofo analitico americano, John Searle scrisse che “gli eventi e i processi mentali, quindi anche la coscienza, fanno parte della nostra storia naturale non meno della digestione, della mitosi o della secrezione enzimatica”. Un’idea molto provocatoria per definire la coscienza, ma reale.

Nel tempo molti altri filosofi si sono espressi sulla coscienza, ma questa volta una voce molto autorevole in questo campo è stata quella, non di un filosofo, ma di un neuroscienziato, Antonio Damasio.

Per Damasio esistono due tipi di coscienza: Core consciousness (coscienza nucleare)(Gerald Edelman la chiama primaria) e Extended consciousness (coscienza estesa). La nucleare è una coscienza momentanea di un evento sensoriale e viene ricondotta al funzionamento delle strutture corticali filogeneticamente più antiche (di cui dispongono quasi tutti gli animali), quelle del sistema limbico, della formazione reticolare, quelle che regolano l'omeostasi, il ciclo sonno/veglia, l'attenzione, le emozioni fondamentali quali la gioia, la tristezza, la paura, la rabbia, la sorpresa e il disgusto: tutte risposte neurali fondamentali ai fini della conservazione delle specie animali e di quella umana.

Il secondo tipo di coscienza (Extended consciousness)(coscienza di ordine superiore per Edelman) viene invece ricondotta alla memoria autobiografia e al funzionamento, soprattutto, dei lobi frontali e parietali, cioè a capacità mentali “superiori” come il linguaggio articolato che ci consente di comunicare le nostre esperienze soggettive. Ma attenzione, al contrario di quanto si possa credere, il linguaggio articolato ha solo favorito lo sviluppo della coscienza. Non è stato assolutamente indispensabile per farla emergere e non l’ha nemmeno creata.

Inoltre, per Damasio, la coscienza estesa genera poi la coscienza morale, che non è un manuale di regole scritte o tramandate a voce, ma un insieme di strategie comportamentali che servono per mantenere unito il gruppo e quindi tutta la comunità in cui si vive, animale o umana che sia.

Allora, se è vero ciò che sostiene Damasio, per quali ragioni, da questo universo di stati mentali, soprattutto quelli della coscienza, debbano essere esclusi gli animali? Perché, ad esempio, alle scimmie antropomorfe, deve essere negata la possibilità di avere delle passioni, delle credenze, di provare delle emozioni, oppure, perché no, di sentirsi orgogliose per aver difeso con successo un alleato in una lotta per la leadership? Poi, molti animali, soprattutto scimmie, sanno “leggere” le intenzioni e il pensiero dei loro compagni e possono reagire ai loro stati intenzionali (teoria della mente), ad esempio, ai loro inganni, predisponendosi a contro-ingannare, come sanno fare molto bene i babbuini e gli scimpanzé. Inoltre, gli scimpanzé possono fare inferenze, sono capaci di pensiero riproduttivo e possono distinguere una figura geometrica da un'altra. Sentono il bisogno di sicurezza, di stima e provano tutte le nostre stesse emozioni.

Per quanto riguarda la creatività, chi non è più creativo di uno scimpanzé nella costruzione di strumenti, per esempio, di bastoncini che vengono infilati nei termitai per l'estrazione egli insetti. Si è scoperto che alcuni scimpanzé possono conoscere il valore terapeutico di alcune erbe, per curare dissenterie e mal di pancia. In laboratorio alcuni scimpanzé hanno acquisito il significato di un certo numero di ideogrammi della scrittura giapponese quando venivano abbinati a dei lessigrammi (simboli astratti corrispondenti a ideogrammi o a parole). Altri sono riusciti a distinguere dei colori: rosso, giallo, arancione, verde rosa e blu. Altri ancora, con il linguaggio dei segni, hanno capito la differenza tra richieste del tipo: “Voglio una penna di colore rosso”, “voglio due penne verdi”, eccetera, distinguendo quantità e caratteristiche estetiche degli oggetti.

Queste scoperte sugli animali, scimpanzé in particolare, hanno proiettato una nuova luce sulla definizione di umanità, sul concetto di coscienza, su quello di altruismo, empatia, senso di colpa, gelosia, sdegno e anche ripugnanza. Per esempio, per interiorizzare il senso di colpa è necessario possedere una forma, seppur rudimentale, di coscienza, di consapevolezza di aver commesso un errore, qualcosa che non doveva essere fatto. Il senso di colpa probabilmente è un punto importante sul quale si sono basate le società dei primi Ominidi che hanno presto dovuto discernere, per sopravvivere, il bene dal male. Nel corso dell'evoluzione, il senso di colpa, si è diffuso tra le nostre cugine le scimmie, anche se in maniera più sfumata rispetto all’uomo, ma questo non vuol dire che non sia avvenuto.

Darwin, ne L'origine dell'uomo del 1871, sostenne che, per quanto riguarda il comportamento morale, tra noi uomini e molte specie animali, esiste una continuità evolutiva. Aggiunse che gli animali possono provare compassione nei confronti del dolore altrui e gli elementi fondamentali della moralità animale, o umana che sia, sono costituiti dalle risposte emozionali che ogni individuo è capace di dare in una qualsiasi forma di rapporto empatico con gli altri. Infatti la solidarietà cooperativa si fonda su dei vantaggi concreti, utili e convenienti per tutti e favorisce chi la manifesta nei gruppi di appartenenza.

Quando la solidarietà in una società viene a mancare si sgretolano i rapporti sociali e in questi casi gli individui rimangono soli, melanconici, meno reattivi, vulnerabili, soggetti a malattie ed a un peggioramento delle proprie condizioni mentali, perché psicologicamente più deboli e demotivati.

In conclusione, le scimmie vivono stati emozionali come noi, sanno essere altruiste, hanno una cultura, sono empatiche, hanno una teoria della mente, provano vergogna e hanno una morale sociale. In sostanza possiedono una coscienza, sebbene nei limiti delle loro capacità cognitive e intellettive.