È in mostra al Museo Madre di Napoli la prima grande retrospettiva su Pier Paolo Calzolari. La mostra, Painting as a Butterfly, a cura di Achille Bonito Oliva e Andrea Villani ripercorre il percorso artistico dagli esordi, negli anni ‘60, fino ai nostri giorni.

Esiste credo una costante comune tra la preghiera e l’arte. La preghiera mette sempre in atto un meccanismo di perdita totale e totale ritrovamento di se stessi. La pittura dovrebbe essere questo: perdersi ritrovandosi o ritrovandosi perdendosi.

(Pier Paolo Calzolari)

La mostra parte dal terzo piano con Senza titolo (2014-2015), una sorta di camera di pittura, a metà tra un paravento giapponese e un mosaico bizantino, che presenta molti tratti distintivi della sua ricerca artistica come le grandi dimensioni e gli esperimenti cromatici e l’opera Painting as a Butterfly, che dà il titolo alla mostra: “La pittura, per Calzolari, è davvero come una farfalla: una lieve forma-colore che si libra nello spazio e nel tempo in cui anche noi co-esistiamo, senza un punto di appoggio se non la volontà di capire come rappresentare il mondo nella sua fuggevole essenza.”

Partendo dal rifiuto di aderire a correnti già affermate, Calzolari afferma che: “la pittura in quegli anni era materia morta. L’unico modo per situarla nel mondo e per il mondo è creare momenti di realtà costruiti attraverso l’organizzazione di un ambiente plastico unitario dove tutti gli elementi messi in gioco possano occupare un posto specifico.” Siamo alla fine degli anni ‘60, quando un gruppo di artisti attivi a Bologna, tra cui Calzolari, danno vita allo studio Bentivoglio. Uno spazio aperto alla sperimentazione e allo studio delle nuove tendenze artistiche e culturali.

Ecco che, man mano che si procede nel percorso espositivo, strutturato come una successione cromatica, si passa da opere dal valore simbolico a opere di stampo sempre più impressionistico. Fondamentale sarà il viaggio a Venezia con il suo doppio riflesso nei canali e il bagliore del marmo veneziano a cui farà sempre riferimento/ritorno in tutta la sua produzione artistica.

Nella sala centrale, spicca la grande opera Monocromo blu, degli anni ‘70, una mappa del cielo notturno ispirata ai viaggi in Medio Oriente, ricordando le Ninfee di Monet. A fronteggiarlo il trittico bianco Haiku, testimonianza della ricerca di sintesi degli ultimi anni.

“C’è il tentativo di raffinare al massimo il sentimento, di concentrarlo fino ad arrivare a una forma poco più che monosillabica.” Il ritorno alla pittura chiamato in causa dalla Transavanguardia, teorizzata da Bonito Oliva, curatore della mostra, vedrà la consacrazione nella Biennale di Venezia del 1980.

Tra la fine degli anni ‘70 e gli anni ‘80 abbandona i monocromi e si concentra sulla pittura austriaca. Si trasferisce difatti a Vienna nel 1982, dove vive per circa due anni osservando, come a Venezia, gli effetti della luce sulla superficie dei canali del Danubio.

Abbandonato ogni tentativo di descrivere la realtà, Calzolari si concentra su uno stato interiore dell’essere, rappresentato dal magma cromatico, come in Naturlandshaft mit Vogal (1981) o in Senza titolo (1986). Realizzate verso la fine degli anni ‘70 e durante gli anni ‘80, opere come la serie dei Teleri Pittura A, Pittura C con le loro grandi dimensioni, ispirate ai teleri veneziani del XIV secolo, vedono il sopravvento del colore sulla materia. In Veste Urbinate (1986-1999) questo predominio del colore si espande al punto da rivelare il magma rosso del fondo, proprio come dall’inconscio emergono le memorie, rappresentazione del rimosso, che domina la produzione degli anni ‘80, definito dall’artista, “Barocco illecito”, per il suo slancio istintivo.

L’esposizioni prosegue con le opere realizzate nell’ultimo decennio, nelle quattro sale Facciata del secondo piano, con i quattro elementi che compongono Senza titolo (2015) che con il loro rigore minimale, dato dallo studio del bianco e delle gradazioni di blu, entrano in un dialogo degli opposti con il grande affresco policromo Ave Ovo di Francesco Clemente. Seguono una serie di opere tra cui: Haiku (scarpetta rossa) (2017) in cui Calzolari riutilizza il sale come elemento cromatico e materico e la tempera all’uovo, usata per le icone bizantine e ripresa nel Rinascimento, Hommage (2001) un “tableau vivant”, come lo definisce l’artista, di una “Donna fiore”, in cui è visibile una figura femminile nuda dalla vita in giù, il pistillo, mentre la parte superiore è nascosta da una gonna rossa sollevata da dei palloncini bianchi, il calice.

Con Donald Duck (2005), torna il tema dell’icona, come una pala d’altare in stile pop art che, se da una parte, essendo un abbozzo, perde e ingloba la valenza simbolica dell’idea rappresentata, dall’altra, la linea del disegno, con tempera al latte, riconduce ai bozzetti preparativi per la composizione pittorica seicentesca.

La mostra si conclude al piano terra, nella sala Re_PUBBLICA, introdotta da alcuni disegni preparatori degli anni ‘60 e da alcune opere pittoriche tra le più rappresentanti di quegli anni, come Il mio letto così come deve essere, Un Flauto dolce per farmi suonare e Anne, in cui introduce parole ne “la speranza che la scrittura si plasticizzi”. L’esposizione termina con le quattro opere di grandi dimensioni, realizzate in diversi periodi: Senza titolo (2008) e Senza titolo (Tre feltri) (2008-2014) entrambi studi sugli effetti cromatici del feltro combusto; Senza titolo (1999) opera multi materica in cui ferro, cera, piombo e oro sono trainati su un binario mobile, ponendo l’accento sul rapporto fra opera d’arte e lo spazio-tempo.

Nell’opera performance Mangiafuoco (1979) Calzolari fa dialogare la pittura col fuoco, indagando sulla mutazione della materia e introducendo, come in Hommage, l’elemento umano, un performer che sputa fuoco su una parte dell’opera.

In Mangiafuoco il mio scopo era stato fare in modo che la fiamma viva non rendesse in alcun modo secondario il rosso dipinto sulla tela.