Simon Finn, Pass the distance. Vi dice niente? Probabilmente no, e state tranquilli: è normale.

La storia di questo disco, uscito nel 1970, non è una storia di successo, di fama e (tantomeno) di soldi. È una di quelle storie da cui un bravo regista inglese, uno di quelli capaci di sporcarsi le mani con la sofferenza, la sconfitta e la schiuma della birra che cala lungo il bicchiere da pinta, saprebbe tirar fuori un bel film, fatto di fallimenti e di poesia. Il film racconterebbe di un giovane del Surrey che a 16 anni si trasferisce a Londra e si ritrova sul palco dello storico Marquee di Soho, con la chitarra in mano. Tre anni dopo pubblica il suo primo album, Pass the distance appunto, pensando che sia l’inizio di una carriera di musicista in anni in cui, se si hanno quelle giuste, si può vivere di canzoni. Quello di Finn è un LP particolare: non ha una tecnica chitarristica affinata, la voce è spesso stentorea e sbilenca, eppure dai quei solchi escono brani potenti, che vivono soprattutto della qualità della scrittura (cominciando dai testi) e dall’interpretazione sincera, che sfonda qualsiasi barriera invisibile tra esecutore e ascoltatore. Abbastanza per farne almeno il punto di partenza di un cammino lungo e apprezzato.

E invece no.

Il disco rimane nei negozi nelle prime settimane, senza attrarre più di tanto i clienti, e poi sparisce anche dagli scaffali: un’azienda produttrice di scarpe fa causa alla casa discografica perché la copertina riprende l’immagine di un cartellone pubblicitario, e le copie invendute vengono ritirate. Quando tornano nei magazzini, presumibilmente per essere distrutte, va in pezzi anche la carriera di Simon Finn. È il 1970, e di lui si perde qualsiasi traccia per oltre trent’anni. Si trasferisce in Canada, dove si mette a coltivare la terra seguendo i metodi dell’agricoltura biologica e impara il karate, fino a diventare un maestro. Combina anche qualche guaio, buttando i guadagni nel gioco d’azzardo, ma alla fine si riprende e si rimette in piedi.

All’inizio degli anni Duemila gli capita di leggere un articolo che parla molto bene del suo disco, descrivendolo come un classico dell’epoca, e decide di contattare David Toop, che aveva suonato con lui e con cui non parlava dal 1971. Viene a sapere che intorno a lui, negli ultimi anni, c’era stata un po’ di curiosità, e si decide a chiamare David Tibet dei Current 93, che lo aveva cercato senza successo qualche tempo prima. Pass the distance viene ristampato, e nel giro di qualche anno Finn pubblica nuovi lavori, perché la passione per la musica e la scrittura delle canzoni non lo hanno mai abbandonato. Finisce sul palco di qualche artista piuttosto famoso, e potrebbe succedergli quello che è toccato per esempio a Bill Fay, riscoperto tardivamente e acclamato grazie all’appoggio di Jeff Tweedy dei Wilco.

Invece no, anche stavolta.

Finn torna a far parlare di sé, ma le sue note e il suo nome circolano in ambienti ristretti, da appassionati, e, se parliamo di numeri, gli stessi che erano riusciti ad ascoltare le sue canzoni nel ‘70, e che lo consideravano una leggenda del folk britannico.

A questo punto il film del nostro regista inglese staccherebbe sulla piccola sala di un circolo Arci, a Castelfranco di sotto, dove Simon è stato a suonare alla fine di aprile. Anzi, ancora prima le cineprese andrebbero a Spedaletto, un paesino arroccato sulla montagna pistoiese, dove vive uno degli organizzatori del festival appena nato, il Backdoor, che ha riportato (o portato per la prima volta?) il cantautore a esibirsi in Italia.

Finn è arrivato un paio di giorni prima del suo concerto, senza chitarra e con una valigia in cui, accanto a qualche camicia, c’erano un paio di chili di porridge, che a quanto pare è l’unico alimento compatibile con la sua ulcera gastrica. Per una giornata si è ritirato tra gli alberi e i ruscelli intorno al bed and breakfast in cui ha dormito, ha raccontato a poche persone un po’ di storie sulla Londra a cavallo fra i Sessanta e i Settanta, e alla fine si è fatto accompagnare al circolo dove avrebbe suonato. Si è messo accanto al banchino del libraio, appoggiandoci sopra una manciata di copie dei suoi dischi. Pass the distance, naturalmente, e qualche pezzo di Accidental life, del 2007. Prima del concerto, sul tappeto persiano che faceva da palco c’erano gli autori di Ambulance songs, il libro di cui ho recentemente scritto, che subito prima di lasciargli il posto hanno letto il capitolo dedicato a Jerusalem, dal quale ho ricavato anche buona parte delle informazioni necessarie per scrivere questo articolo.

Quando è stato il momento di suonare, Simon Finn ha cominciato come ci si poteva aspettare da lui, con una falsa partenza e una veloce riaccordatura, che forse serviva più all’anima che alla chitarra. Devo confessarlo: in quel momento ho temuto che non fosse più in grado di esibirsi in pubblico.

Invece, di nuovo, no.

Man mano che passavano i minuti e che i brani più recenti si alternavano con quegli storici, tutti noi che eravamo in silenzio in quella piccola sala, con dietro alla porta ragazzi di provincia che facevano tintinnare le Heineken e alzavano la voce man mano che le bottiglie finivano in fila sul muretto, noi che eravamo a pochi passi, dicevo, eppure chiusi in una bolla lontanissima, ci rendevamo conto di essere spettatori di un evento di cui, ancora una volta, sapranno in pochi, ma che per quei pochi diventerà un ricordo importante, un gioiello prezioso da custodire tra gli oggetti del cuore più rari, e per certi versi inaspettati. Quell’oretta abbondante di Simon Finn davanti al microfono è servita per prendere confidenza con i suoi album di questo millennio, almeno per chi (come me) non li conosceva se non molto superficialmente. Quel tempo è servito anche per capire, o per ricordarsi, che l’ispirazione conta più della tecnica, che la voglia e la capacità di dire qualcosa contano più del portarsi le proprie chitarre da casa, e che a volte i concerti gratuiti nelle case del popolo valgono di più di quelli negli stadi con i biglietti che costano come due mesi di bolletta della luce.

L’unico elemento che mette un po’ di tristezza è che difficilmente ricapiterà di sentire Simon Finn dal vivo in Italia, perché di pazzi come quelli che organizzano il Backdoor in giro ce ne sono pochi.

O magari, per l’ultima volta, invece no.