Ci sono storie che ti chiamano e in modo inconsapevole quasi ti senti trascinato da istinti arcaici che ti fanno vivere epoche passate. Questa è una di quelle storie che dal caso portano alla consapevolezza; è passato un po' di tempo ma alla fine si è svelata.

La mia vecchia mountain bike frenava male; quindi, mi decido a portarla dal ciclista per farla riparare. Entro nell'officina, di quelle vere, un po' buie, con così tanta polvere e grasso impregnato nel pavimento che la polvere appiccicata sopra non ti fa capire se è mattonellato, oppure è sterrato. Oggi gli ambienti dei ciclisti sono 'fighetti', tipo boutique, con tante vetrine, luci e colori sgargianti; lì, nell'officina dove spesso vado a fare un giretto per guardare qualche bici vecchia o aggiustare la mia MTB, è come entrare nell'antro di Mangiafuoco.

Appoggio la mia due ruote in attesa che la riparino e mi addentro nella zona ‘reperti’, vecchie bici di ogni genere lasciate in conto vendita da chi n'è uscito col modello lustro e fiammante. Due mi saltano agli occhi: una gialla canarino e una rossa, sono sudice ma traspare la fierezza di un tempo, snelle, eleganti, non quei ‘troccoloni’ ignoranti tutte scritte e tubolari uso impalcature. Sono belle entrambe, sono da corsa, ma la bici ce l'ho già, che me ne faccio di una ‘nuova’.

Nulla, non ce la faccio, vado verso la rossa, anche se ha un manubrio da città nonostante il resto sia in assetto corsa, è frizzante. La provo, dopo 10 secondi capisco che è mia. Quasi mi scordo la MTB che è già riparata e la voglia è quasi di mollarla lì a vendere per tornarmene a casa con la bici rossa. Poverella, non posso, anche lei serve nelle pedalate fuori strada, quindi torno a casa con la mia vecchia bici e a passo svelto torno a prendere la rossa, pago e scappo.

Vola sulla strada, è leggerissima e alla minima pressione sui pedali, scatta come una gazzella, sono felicissima dell'acquisto, peraltro economico. A casa la pulisco, la osservo e comincio a studiarla nei dettagli: il telaio, il cambio, i pedali, il nome, già il nome, non lo conoscevo, né mi aveva detto niente il ciclista, soltanto: "È una biciclettina buona!” Ma pensavo lo avesse detto per spirito di commercio. Viner, si chiama Viner new design, ma è così sporca che sembra abbia fatto la guerra. Ebbene, comincio a navigare su Internet e scopro una storia fantastica.

In effetti, la bici, non quella ovviamente, ma la bicicletta in generale aveva proprio fatto la guerra. In Italia, nei seicento giorni della resistenza, la bicicletta fu un mezzo importante; vi si nascondevano e si trasportavano documenti e ordini segreti per organizzare gli scioperi e le sommosse.

Alessandro Vaia, combattente nella guerra di Spagna, fu un comandante e partigiano nelle Marche, il Comando delle Brigate Garibaldi, che lui coordinava; aveva studiato un piano per tutelare le fabbriche in caso di incursioni dei fascisti e dei tedeschi, predisponendo una rete di mille uomini in bicicletta a protezione.

La bicicletta rappresentava sempre un valido mezzo per attaccare e dileguarsi, per trasportare cose o documenti come quelli nascosti nella canna della bici di Gino Bartali, che in tal modo riuscì a salvare 800 ebrei dallo sterminio.

Dal febbraio del 1944, numerosi bandi cittadini vietarono di circolare in bicicletta nelle ore di coprifuoco, minacciando l’arresto e l’uso delle armi per il possesso della bici, poiché il loro utilizzo era ritenuto un potenziale strumento di ‘terrorismo’.

Fu la Resistenza la stagione eroica delle biciclette, anche se nel primo dopoguerra rappresentarono essenzialmente l’unico mezzo di locomozione usato dai braccianti in sciopero; contro di esse si accanivano, schiacciandole e rendendole inutilizzabili, le camionette della ‘Celere’ del ministro dell’Interno, Mario Scelba.

La mia Viner nasce come simbolo di un periodo storico e di una esperienza di vita forte e traumatica, ossia prende forma dalla mente del partigiano Viviano Nerozzi, figlio di mezzadri delle campagne pistoiesi. Viviano Nerozzi trascorse la sua infanzia nei campi, all’aria aperta, immergendosi completamente in quella natura che amò per tutta la sua vita. Era un ragazzo quando partecipò alla Resistenza armata contro il fascismo, unendosi alle Brigate Partigiane del circondario pistoiese. Ottenne il Certificato al Patriota, che gli fu rilasciato dal Generale Harold Rupert Alexander, comandante in capo delle Armate Alleate in Italia come riconoscimento del coraggio e dell’impegno sprezzante del pericolo ma forte nel desiderio di liberare l’Italia.

La passione per le biciclette si fece sentire forte e grazie alla sua fervida inventiva e intraprendenza decise nel 1947 di aprire un negozio di biciclette e motorini nei pressi di Pistoia. Fu proprio il 1947 l'anno in cui Viviano fondava la Viner, dall’unione delle lettere iniziali del suo nome e cognome, per produrre biciclette da passeggio forti e robuste.

Erano gli anni della ricostruzione, anni difficili ma la Viner produceva a ottimi livelli e si fece conoscere prima a livello locale e poi nazionale. Realizzava biciclette da corsa diventando una fabbrica leader nel suo settore. Nel 1984, con la squadra Viner vinse le Olimpiadi di Los Angeles.

Poi intuì il futuro successo della nuova tipologia di bici, la mountain bike, e anche lì spopolò. Poi però arrivarono gli anni della crisi delle aziende a conduzione familiare e le difficoltà erano molte, tant'è che il genero prima e la figlia e il nipote del Nerozzi dopo, tentarono di proseguirne l'attività, creatura del Nerozzi che nel frattempo era deceduto, finché decisero di chiudere bottega.

Scomparve così una storia, simbolo di rivincita e di passione, nata da quella stessa passione che animò la voglia di libertà, quella libertà che si respira quando si vola sui pedali.