Entro il 2020 il 42% della foresta amazzonica sarà distrutto dall’inquinamento industriale e urbano e solo il 5-10% potrà ancora essere definito “vergine". Questo dato dell’Istituto nazionale di ricerche dell'Amazzonia risale a dieci anni fa. Dal 1970 a oggi, oltre 768 mila chilometri quadrati di foresta amazzonica, cioè il 19% della superficie totale, sono stati tagliati lasciando il posto alle attività umane, in genere produzioni intensive: allevamento, agricoltura, industria, edilizia, sfruttamento del legname. Con un’inevitabile migrazione delle popolazioni locali.

Poi nel 2017 una buona notizia: la deforestazione ha registrato un 16% in meno rispetto al 2016 e questo anche se, come rileva l’Istituto nazionale di ricerche spaziali brasiliano, 6624 chilometri quadrati di foresta è andata persa tra agosto 2016 e luglio 2017, un’estensione pari a 112 Manhattan. Alcuni sforzi si stanno quindi facendo per il controllo della deforestazione, ma non bastano. Quel patrimonio ha un ruolo chiave nell’equilibrio climatico mondiale: il 20% dell’acqua dolce della Terra confluisce nel bacino amazzonico.

Questo per me è stato un buon motivo per vedere da vicino perché è necessario preservare quelle aree, per il bene di tutti. Strada facendo ho scoperto altre ragioni, alcune anche poetiche, che ora mi appresto a raccontare fornendo prima due indizi che a me paiono chiavi d’accesso allo spirito di questi luoghi.

L’Amazzonia si chiama così per errore. Anzi per un’allucinazione. I primi conquistatori portoghesi raccontarono che donne guerriere simili alle amazzoni asiatiche e africane, li accolsero al loro sbarco. Da qui il nome. Quello che dissero di avere visto, però, era effetto della malaria: la foresta pluviale più estesa del mondo è un concentrato di parassiti, anche letali; nasconde 13 milioni di insetti come la formica tucandeira, capace di paralizzare il sistema neuromotorio, o il ragno macaco, che con un balzo da terra salta al viso, morde e lascia in stato catatonico per diversi giorni. C’è di buono che tra gli 80 mila vegetali, alcuni dall’aspetto inquietante, si annidano erbe medicamentose in grado di curare ogni malanno. Per scovarle servono gli indios. Perciò, se si decide per un’avventura nella leggendaria foresta, è bene affidarsi a chi in quei luoghi è nato e ancora gli è permesso di viverci, nonostante la deforestazione. Come Osvaldo, la mia guida a Marajó.

Situata nello stato brasiliano del Parà, alla foce del Rio delle Amazzoni, Marajó è l’isola fluviale più grande del mondo, sintesi perfetta della foresta in questione: stessa biodiversità, la più varia e ricca del pianeta, promette e mantiene cose dell’altro mondo. Qui i colibrì si chiamano bacia-fiori, i bufali sono cittadini e il mare è dolce, le rane fischiano e i vermi sanno di ostrica, i fiori volano e l’albero del peccato originale non dà mele. In una natura primitiva, anche se più “addomesticata” di quella della leggendaria foresta, vivono 685 mila umani, contro un milione di bufali. E sono i quadrupedi i più attivi della popolazione. Danno latte, formaggio, lavorano i campi trainando aratri; sono, con biciclette e qualche motorino, il mezzo di trasporto principale e, anche se in vecchiaia diventano bistecche, scarpe, borse, borracce, godono di un rispetto sacro da parte della minoranza umana. È nella natura delle cose, come dicono qui.

L’ecosistema dell’isola deve molto alle fazende agricole diventate riserve ecologiche. Per accedere si paga l’entrata, ma non ci sono steccati, «perché la natura non si può recintare, si può solo rispettare», osserva Osvaldo. È lui, laureato in scienze naturali e agronomia, nativo marajoaro, la mia guida nelle fazende più affascinanti dove si arriva in 4x4, ma poi si gira a piedi, in bici, sul barcao, montando un cavallo o un bufalo.

Giunti alla prima fazenda a cavalcioni di un quadrupede con le corna, dopo a piedi seguo Osvaldo attraverso un surreale intrico di mangrovie. Lì sotto, il sole filtra con fatica, la calura diminuisce e facilita la passeggiata su un ponte stretto e precario, fatto di canne di bambù, che fende la foresta. «Quello è un termitaio», spiega Osvaldo. «Le termiti aiutano l’ecosistema: gli alberi competono tra loro per conquistare il sole, i più forti coprono gli altri, le termiti li attaccano fino a farli cadere e così entra il sole e dà vita alle altre piante. A loro volta le termiti sono preda di formichieri e picchi, così non sterminano tutto. È nella natura delle cose». Poi Osvaldo indica un verme lungo un metro aggrovigliato su una mangrovia: «È il turù, ha il sapore simile alle ostriche, il popolo locale dice che è un viagra naturale». Stento a credere sia commestibile, ma Osvaldo fa come per leccarsi i baffi e mi arrendo.

Alla fine della foresta la luce abbagliante del sole e l’immensa spiaggia Manguezais, portano a una distesa d’acqua increspata da onde costanti. «Nessuno crede che questo sia fiume, tutti pensano sia mare», dice Osvaldo. «L’oceano dista 140 chilometri. Se ci si mette sulla cima di una duna, con un binocolo s’intravede la pororoca (onde giganti create dall’incontro di fiume e mare, ndr)». È questo il mare dolce. Marajò è affacciata sull’Oceano Atlantico, ma tanta è la portata dell’acqua del Rio amazzonico che l’oceano trova un muro e smette di essere salato. Il nome Marajò in tupì (lingua degli aborigeni) significa infatti “barriera del mare”.

Nonostante sia un’impresa arrivare da queste parti (26 ore tra aerei, traghetti, autobus e contrattempi) l’aria sia umida alla potenza, le strade senza corrente elettrica, dopo 48 ore da qui non si vorrebbe più andare via e proprio perché tutto sembra una cosa, ma è un’altra. Tipo: quello che hai davanti è mare ma non lo è. Oppure: dal buio della strada arriva un fischio beffardo del tutto umano e invece sono le rane, colonna sonora delle sere silenziose. E ancora: i fiori colore corallo che ricoprono un grande albero, all’improvviso volano via. «Sono gli Ibis, una delle 385 specie di volatili di quest’area», spiega sempre Osvaldo. In lontananza starnazzano anatre selvatiche, poco più in là un tucano ci sbircia, poi vola via disturbato da un urlo. «Niente paura, sono le scimmie guariba: gridano per segnare il territorio», rassicura la mia guida. Sono alte mezzo metro, hanno una lunga coda prensile, vivono in gruppetti e possono berciare per un minuto di seguito, più volte al giorno. Non sono pericolose. Anaconda, boa, coccodrillo lo sono, ma stanno lontani dagli uomini. Come i giaguari, che sentono odore di cristiano a due chilometri di distanza: «Sono paurosi», dice convinto Osvaldo prima di indicare un airone azzurro in cielo. «È una specie rarissima: all’inizio del XX secolo erano spiumati per fare mantelli e ornare i cappelli delle signore. Hanno rischiato l’estinzione».

Fuori dalle fazende il tempo scorre altrettanto lento e in sella a una bicicletta si lambisce Araruna, una bella spiaggia sull’altra riva del fiume, si fa sosta al Mercado central e al porticciolo con annessa conceria di pelli, si sorseggia una sobrimesa, dolce a base di poupa de pupuacu (frutto gelatinoso simile alla susina). Ci sarebbero ancora 35 mila ragni, 25 mila formiche e più di mille specie di rane da incontrare, ma “the game is over”. Oltre alla raganella fischiante, mi accontento di portare a casa il ricordo di un’altra batrace, minuscola, verde e gialla: fa salti in alto di due metri, si appiccica a ventosa ai muri, caccia l’insetto e si lancia per terra senza farsi un graffio: tiene puliti i giardini da insetti fastidiosi ed è tra gli spettacoli che la natura offre ogni sera prima della buonanotte.

Il giorno della partenza invece non si dorme: il bus per il traghetto passa alle 4.30 del mattino. Si aspetta l’alba che sale piano, viola come un tramonto. Spunta Osvaldo: «Vedi quell’albero con i fiori blu? È lo jambu, l’albero di Adamo ed Eva». Quello del peccato originale? «Sì, ma loro non hanno mai mangiato la mela». Come lo sai? «Perché i frutti dello jambu sembrano mele, ma non lo sono. E poi perché il paradiso è qui. Per ora».