“Mi sono diplomato a Boboli” dichiara. Intende dire che nel giardino granducale di Palazzo Pitti si portava album e carboncino ed eseguiva studi accurati di alberi e statue? Ride, dolcemente dissacrante, all’idea che gli si possa attribuire un simile impegno precoce: “Macché, andavo a Boboli per non andare a scuola e godermi il verde”. Fare forca, si dice a Firenze, dove Lapo Gargani, pittore, è nato nel ’72. La scuola proprio non gli garbava, sempre a Firenze si dice così (e Lapo è molto fiorentino, basti il nome), tanto che a un certo punto, fece una forca definitiva e all’Istituto d’arte di Porta Romana dove si era esercitato con teste, colonne, mosaici, non lo videro più. “La pittura, il disegno mi piacevano, ma avevo il totale rifiuto di altre materie, tipo la tecnologia. Poi mio padre morì, e la disciplina mi pesava”.

Ma il destino lo portò a sedici anni nella bottega del restauratore di opere pittoriche Pierluigi Caldini, detto Gigi, amico di uno zio, come apprendista decoratore e, in barba al ‘pezzo di carta’, affinò lo sguardo e allenò le dita con i finti marmi e le finte pietre di San Michele e Gaetano in piazza degli Antinori, prese confidenza con il museo degli Uffizi. Collaborando con le reputate botteghe di scultori lignei e corniciai: Bartolozzi e Maioli, Moscardi. Il Caldini gli era affezionato e quando fu vicino al ritiro consegnò il Lapo ventenne a suo figlio Filippo e i due divennero soci e ancora lo sono. “Gigi è un appassionato d’arte e comprava dipinti a rate. Filippo… è tifoso viola” Anche Lapo palpita per la Fiorentina.

Nel suo studio di via Cremani, non lontano dalla Certosa del Galluzzo, a pochi giorni dalla sua partecipazione con due tele a Paratissima, uno degli appuntamenti in ascesa di Artissima a Torino, ricorda quando il richiamo della pittura lo risucchiò in una solitudine che pareva interminabile. “A venticinque anni ho ricominciato a dipingere, qualcosa è scattato. Ho ricomprato pennelli e colori. Quanto ho dipinto e disegnato! Per dodici anni non ho fatto vedere niente a nessuno. Ho scavato un tunnel tipo ‘fuga da Alcatraz’. Un po’ m’è rimasto questo atteggiamento. Non voglio per forza stare isolato, alle mostre mi piace vedere le reazioni, ma se voglio fare una cosa e portarla in fondo i fattori esterni mi disturbano”.

Quando saltò fuori da Alcatraz vinse il Premio Italia, con il ritratto della figlia Giulia, “e un qualche riconoscimento della critica con quello di Charles Bukowski”. Ma ancora non aveva dimestichezza col mercato, a ogni richiesta di acquisto s’interrogava: “glielo do?”. Adesso invece vendere gli va. E per fortuna, dato che vende parecchio, anche con la complicità di Gisella Guarducci, che ha organizzato alcune sue personali, e si prodiga di diffondere l’opera di Lapo Gargani che le scuote l’anima, di farla desiderare “per viverci insieme”. Se gli si chiede di raccontare come si dipana la sua storia di pittore, passa al tu perché il lei non s’intona con la sua personalità e avvisa: “Io conosco poco, sono il matto che cerca il moto perpetuo in cantina”.

Che cosa hai trovato in cantina?

Una serie di… non so come chiamarla. Tanta sperimentazione, una ricerca sui ritratti pop. Tutte le tecniche: collage, olio, tempera, carta, calce, affresco. Legami con la musica, la letteratura. E un delirio di ispirazione fra Canzoni a manovella di Vinicio Capossela e Viaggio al termine della notte e Morte a credito di Céline. Se non ci fosse stato Leonardo Bucciardini, il Buccia, professore al Liceo Capponi, Céline non l’avrei capito: lui legge questi testi come io leggo Diabolik e me li ha spiegati. Da Canzoni a manovella a Quadri a manovella. E Capossela, che è meticolosissimo, dette il via libera perché i Quadri a manovella illustrassero il libro su di lui scritto da Laura Rizzo, pubblicato da Arcana Editore nel 2015.

La prima mostra importante?

Una quindicina di anni fa alla Fornace Pasquinucci di Montelupo Fiorentino. Non ci sono stati i cazzotti per vederla, però ho venduto un quadro alla cifra che chiesi, e mi pareva alta, e questo quadro cominciò a girare.

Altra coppia di ispiratori De André e Lee Masters?

Non al denaro non all’amore né al cielo, l’album di De André dall’Antologia di Spoon River… Io veramente avrei voluto essere chitarrista.

Come Keith Richards?

Anche molto meno!

Torniamo a Spoon River. Hai dedicato un’opera a ogni canzone di De André?

Sì, ed è stato più tranquillo, rispetto al delirio di Quadri a manovella. Soprattutto una sperimentazione sul colore e un passaggio di immaginazione dopo le immaginazioni di Lee Masters e di De André. Nel 2012 si è ammalata mamma e per un anno ho smesso di dipingere: ho vissuto intensamente accanto a lei con mia sorella infermiera. Non facevo nulla, andavo solo in palestra che era un ambiente che mi faceva star bene, e mi sfogavo. Dopo la morte di mamma sono tornato con Scenografie, un allestimento pittorico per il concerto di Jesper Bodilsen in Palazzo Pitti. Per il musicista ho fatto anche la copertina di un CD, nel 2016. Con Gisella stiamo pensando a una mostra interattiva con la musica, ma siamo davvero ai preliminari, non saprei che dire.

Un sogno da coltivare?

Vorrei fare qualche cosa di importante a Firenze o da lasciare a Firenze.

Che ci fa quella Vespa in vetrina?

È stata immatricolata il 2 novembre 1972, il giorno della mia nascita e giorno dei morti. Bello, no? E ce l’ho messa perché non volevo mi prendessero per un negozio.