Ne Il delirio e i sogni della Gradiva di Wilhelm Jensen (1906) Freud scriveva:

Probabilmente noi (psicoanalisti) e lui (poeta) attingiamo alle stesse fonti, lavoriamo sopra lo stesso oggetto, ciascuno di noi con un metodo diverso… Così egli (il poeta) sperimenta in sé quanto noi apprendiamo da altri, e cioè le leggi a cui deve sottostare l’attività di questo inconscio; ma non ha bisogno di enunciare queste leggi e neppure di riconoscerle chiaramente … esse si ritrovano incorporate nelle sue creazioni ... è sempre stato il precursore della scienza e anche della psicologia scientifica.

Se il sogno fonda la base della psicoanalisi e della sua teoria della mente, esso è anche all’origine dell’immagine mentale che darà luogo alla creazione artistica, di quella cinematografica in particolare, ma anche di quella pittorica e letteraria.

Anche secondo Bion “i poeti e gli artisti sono dei sognatori”, gli artisti hanno, infatti, la capacità di porsi di fronte al terrore senza nome, all’ignoto, all’inaudito e renderlo accessibile e riconoscibile tramite le loro visioni, che siano poetiche, pittoriche o altro, in quanto il pensiero artistico presta vita a sentimenti, a movimenti dell’anima in cui ci si riconosce per l’universalità della loro composizione.

L’opera d’arte è opera di svelamento e dunque di verità, di quelle verità che il pensiero logico non riesce, di solito, ad avvicinare, ma solo la mente sognante dell’artista può dare voce al normalmente impensabile e ad avvicinarsi al mitico, in quello stato oniroide che sviluppa capacità quasi predittive e, come Tiresia, il vate non vedente, anche l’artista è come se si dovesse “accecare” per poter stare a contatto col più profondo strato del mondo interiore, per poi esternalizzare e mostrare agli altri le immagini del suo sogno.

Uno dei “vati” che hanno avuto il coraggio di uno sguardo profondo verso il significato del vivere e forse anche la spudoratezza di volersi avvicinare alla verità ultima è Max Klinger, artista tedesco poliedrico che si situa a cavallo tra Otto e Novecento, pittore, scultore, incisore, musicista, disegnatore, teorico, che non solo fluttua con leggerezza da un’espressione artistica all’altra, ma anche dalla realtà del quotidiano al pensiero onirico e dal fascino abbagliante del mito fino alle oscurità della vita inconscia.

La sua intuitività visionaria ha colto in maniera puntuale e intrigante i temi del panorama culturale della sua epoca come se fosse il polo ricevente di pensieri ancora non pensati, brulicanti nell’atmosfera alla ricerca di un pensatore per essere riconosciuti. Pensieri che hanno trovato casa e significato nella sua mente disponibile al nuovo, si sono depositati in lui come dei “precipitati” a cui Klinger ha dato espressione nella sua opera, anticipando molti delle poetiche emergenti nel novecento, ma in particolare ha intrattenuto un dialogo intimo con la psicoanalisi, raffigurando, in maniera predittiva e stupefacente, il “pensiero onirico della veglia”, quel processo inconscio che trasforma in continuazione i dati e gli stimoli della realtà in pittogrammi. Klinger ha incarnato, riconosciuto, sognato queste trasformazioni inverandole nelle sequenze dei suoi lavori incisori.

Ed è in questo senso Max Klinger. Inconscio, mito e passioni alle origini del destino dell’uomo il titolo della mostra che si tiene a Bagnacavallo, al Museo Civico delle Cappuccine con l’esposizione di oltre 150 opere che fanno parte dei suoi famosi cicli di incisioni, senza dubbio capolavori della grafica moderna. Le incisioni rappresentano forse la forma con cui Klinger ha espresso in maniera più profonda e raffinata il suo mondo interiore, probabilmente perché l’incisione ha la peculiarità di entrare dentro, di lasciare una traccia sensibile, di penetrare nella superficie del materiale come se potesse entrare e incidere col bulino nella pellicola della mente e, allo stesso tempo, con la possibilità di essere diffusa ad eco in ripetizioni potenzialmente infinite. Un’espansione, dunque, in verticale e in orizzontale.

Klinger emancipa il disegno e l'incisione dallo stereotipo di arte secondaria per riportarli all'altezza delle arti nobili, per lui la pittura, trionfo della luce, rappresenta le apparenze, il visibile, mentre la grafica dà voce al “lato oscuro della vita”, alla fantasia, alle pulsioni, a tutto il formicolare dell'invisibile che permea la soggettività.

Colpisce, nella sua opera, la propensione a creare dei cicli che chiamerà “opus” usando un gergo musicale, pensandoli dunque con anche una qualità sonora; sono racconti che si sviluppano in tante rappresentazioni, storie scandite in immagini, ognuna con un suo titolo, intessendo trame imprevedibili dove il reale, il fantasticato, il pulsionale, l'immaginario entrano a far parte della sequenza grafica, in un'alternanza libera di pensieri e rêveries, da cui sgorgano personaggi e situazioni inaspettati, che seguono naturalmente il fil rouge di una logica interna e, come il sogno e la musica, fluttuano tra variazioni e trasformazioni perenni quasi a voler disegnare il tumulto e il ritmo che scandisce i movimenti del profondo. Anche in questo senso Max Klinger rispecchia il pensiero psicoanalitico, inoltre evidenzia l’importanza della narrazione e, in particolare, dà forma al pensare e raccontare per immagini riconoscendo implicitamente al sogno la posizione privilegiata che Freud gli aveva dato.

Un esempio eclatante è il ciclo dal titolo Un guanto (1881), racconto autobiografico, dove la storia d’amore si incentra su un guanto perso dalla donna di cui un uomo si è innamorato solo vedendola da lontano. Il guanto diventa pegno d’amore, diventa la donna stessa, diventa il tormentone amoroso, croce e delizia che invade la mente dell’uomo e il tutto è giocato soprattutto nel mondo interno, nella fantasia, dove l’avventura assume una dimensione oniroide e, proprio per questo, vissuta come assolutamente reale, con un tangibile coinvolgimento emotivo proprio come succede nei sogni.

L’opera è suddivisa in 10 incisioni dove è rappresentata la storia emotiva dell’uomo in relazione al guanto, ma anche la storia emotiva del guanto, che sembra contendere all’uomo il ruolo principale del racconto. Tutti e due sono alle prese con vicende forti, emozionanti e rischiose, l’angoscia di morte e la disperazione sembrano toccare entrambi. Entrambi attraversano paure e momenti di quiete. L’ambivalenza e l’ambiguità la fanno da padroni, quali solitamente troviamo nel teatro dell’inconscio. Alla fine dell’avventura, il guanto, adagiato a terra occupa un grande spazio nella stampa, è accasciato, misterioso, sembra rappresentare tanto altro. Un puttino, lì vicino lo guarda incuriosito, forse divertito, un po’ malizioso, conferendo al guanto quasi un significato irriverente: corpo morbido, femminile, sinuoso, in attesa, oppure desiderio maschile ormai troppo provato, sfibrato e sfinito che si lascia andare inerme oppure, abbandono appagante, chiusura felice del sogno/avventura?

Il guanto è una seconda pelle che protegge, che attutisce il contatto, vela, nasconde, ma il guanto è anche messaggio-sfida di combattimento, il guanto ha un dritto e un rovescio, una doppia faccia, “il bello è brutto e il brutto è bello” dicono le streghe del Macbeth: Klinger apre insaturamente a una polisemia di prospettive. Il Guanto, storia seducente, ricca comunque di passione e di ambiguità, composta di movimenti tra i più disparati, movimenti dell'anima e movimenti musicali, alterna sequenze di realtà a pittogrammi che zampillano dall’inconscio e si inseriscono armoniosamente nella storia.

Nei racconti incisori Klinger interpreta e dipana la vita, amori complessi e tormentati, dà forma a pensieri inquietanti, dà libera espressione ai personaggi che abitano l’inconscio tramite una narrazione per immagini appassionata e musicata, in un adagio e/o in un andante, adagiata e/o movimentata su onde magnetiche, sonore, vibranti l'invisibile, così come s’invera, per esempio, nell'opus Amore e psiche, dove mette in scena il mito raccontato da Apuleio. Anche qui è una storia di amore appassionato che si gioca tra il desiderio e la proibizione, tra il sogno e la realtà, tra la verità e l’inganno, tra la trasgressione e la redenzione, tra l’umano e il divino, tra la vita e la morte. “La Morte è il vertice dei nostri desideri; ne rifuggiamo la forma, non la sostanza” sentenzia Max Klinger, confermando la complessità, la ricchezza, la inclusività della sua poetica.
Dedicherà questa serie di quadri a Brahms, musicista da lui amato, idealizzato fin dalla giovinezza e creerà appositamente per il musicista, in occasione del suo sessantesimo compleanno, 41 opere dal titolo Fantasia su Brahms.

Musicista e musicofilo Klinger ha intessuto un rapporto intenso con la musica, vissuta come parte integrante della bellezza, del vivere, quella “music behind the words” che ha compenetrato la sua opera e la sua vita. Il titolo evoca la “Fantasia” perché Klinger ci introduce subito nel suo sogno su Brahms, e le tavole hanno una qualità che attiene alla musica, come se fossero un’espansione dell’opera del musicista, senza cesura tra musica e disegno perché sostanziati dalla dimensione onirica. In Klinger è forte l'idea di un'arte che si colloca tra sogno e musica e di entrambi possiede la qualità evocativa e narrativa. L’opera di Klinger è davvero anche da ascoltare perché trascende le differenziazioni tra le espressioni artistiche.

Cogliendone sensibilmente lo spirito, la mostra stessa è stata allestita in modo da permettere di vivere questa esperienza sensoriale del visivo-musicale, irrorando Brahms nelle sale dell’esposizione.
Esperienza mistica da non perdere.