A picco sul Lago Maggiore, con uno scenario che spazia dal lago a Prealpi e Alpi, la Rocca di Angera ha una lunga storia che la lega a Milano; eretta su un’antica fortificazione di epoca romana, divenne, nel Medioevo, possesso dei Visconti, che qui, in una serie di affreschi – raro esempio di ciclo pittorico laico – celebrarono la vittoria della loro famiglia sui rivali Torriani. Abbattuti i Visconti, la Rocca passò alla Repubblica Ambrosiana e poi ai Borromeo, che vi hanno allestito il sorprendente Museo della Bambola e del Giocattolo – Collezione Borromeo. Fortemente voluto, dal 1988, da Bona Borromeo Arese, potrebbe sembrare per bambini, ma nelle sue sale anche gli adulti possono sognare ad occhi aperti.

Passata una prima sensazione di soggezione nell’entrare in un poderoso maniero che racconta una storia secolare, le sale, subito c’immergono in un’atmosfera rarefatta, dove le luci soffuse fanno risaltare da teche lucenti un occhieggiare di bambole e bambolotti che ci vengono incontro nei loro abbigliamenti originali e ci fanno regredire alle fiabe infantili, a ricordi che emergono dall’inconscio. Ma questa preziosa raccolta, curata e aggiornata dal prof. Marco Tosa, uno dei massi esperti del settore, tra le più importanti nel mondo e vanto di tutta la provincia di Varese e della Lombardia, segue anche un rigoroso itinerario geografico e storico.

Scopriamo così i cambiamenti di gusto e di costume che, dai primi esempi del ‘700, arrivano fino al prototipo della “Barbie” e alla bambola sexy con corredo da spogliarello. Fino al ‘700 le bambole erano state trastullo di figlie di aristocratici o alto-borghesi, si trattava di oggetti di pregio dall’alto costo e prodotti in pochissimi esemplari. Nell’800, questo tipo di giocattoli entrarono sempre più nelle camerette delle bambine borghesi e, come ha scritto Tosa nel ricco catalogo dell’esposizione: “Ebbero grande importanza, oltre ai cambiamenti formali e costruttivi, anche il ruolo didattico attribuito alle bambole dal mondo adulto, tali oggetti erano proposti come doppio e modello ideale al quale il bambino doveva guardare, spesso obbligato ad una crescita veloce in un’infanzia vincolata da rigida etichetta e ferrea disciplina …”.

La produzione di bambole divenne dunque un fatto di mercato e se ne avvalsero soprattutto fabbricanti tedeschi e francesi, approfittando dell’uso dell’economica cartapesta, aprendo la strada a una produzione semi industriale. Le oltre 1400 bambole del museo ci offrono pure l’evolversi delle tecniche e dei materiali, che vanno dalla cartapesta al legno, dalla cera alla porcellana, che presentano volti e corpi rigidi e, poi, con l’andare del tempo, divennero snodabili e mobili, addirittura con la possibilità di atteggiarsi a diversi stati d’animo.

Per fare un esempio concreto di come queste “pupattole” fossero un portato della cultura dei tempi, basti pensare alla diffusione, a fine ‘800, dei “bebé caractère”, non più fissati in un’astratta immobilità emotiva, ma realizzati in pose quotidiane ed espressive ai limiti dello sgradevole, in modo consono a quel realismo che l’affermarsi della cultura positivistica suggeriva. Poi, per rituffarci nel mondo del sogno, ecco la sala degli automi, dove straordinari personaggi animati recitano una fantastica commedia che possiamo rivivere su un grande schermo che ne riproduce anche le musiche.

Alla fine, viene proprio da chiedersi, come fa Marco Tosa nel ricco catalogo della mostra, ma, “allora, cosa c’entrano i bambini?”. Tutti questi bambolotti, pupattole, bebé non sono stati forse un pretesto del mondo degli adulti che avevano scoperto un “mercato” redditizio? O forse dietro tutto questo c’è l’eterno desiderio di ritornare bambini che ogni uomo cova nel suo profondo?