Del tutto assente dai poemi omerici, il termine greco tyrannos, di origine probabilmente microasiatica, iniziò a fare la sua comparsa a partire dal VII secolo a.C. in autori come Archiloco, Alceo, Solone e Teognide, trasformandosi via via in una delle parole con cui la cultura antica si sia più frequentemente messa a confronto.

Un significato il suo che al pari di quello di monarchos rimandava alla figura di “colui che governa da solo”, ma che a differenza di quello non implicava la legalità di una reggenza basata sul consenso. Un'ascesa repentina quella da esso descritta, che lo vide originariamente riferirsi ai titolari delle tirannidi arcaiche di VII e VI secolo, detentori di un potere assoluto e personale che essi, generalmente di nobili origini, seppero conquistarsi approfittando delle condizioni di grande instabilità conseguite al significativo incremento demografico dell'epoca e cavalcando l'onda del malcontento espresso dagli strati più bassi della popolazione; personaggi intraprendenti, spesso meritevoli di aver dato un forte impulso all'urbanizzazione e allo sviluppo economico delle loro città, promotori di coraggiose politiche estere, lungimiranti custodi delle arti e delle lettere. E altrettanto repentina la discesa che in breve tempo lo vide irreversibilmente deteriorarsi e riflettere nell'assunzione della nuova valenza di “usurpatore ingiusto e crudele” l'inasprirsi del dominio dei vari tiranni di fronte alla maturazione di una sempre maggiore consapevolezza politica da parte delle classi da essi prima rappresentate, fino a vederlo diventare incarnazione e paradigma di ogni negatività nell'ambito della propaganda ideologica di stampo democratico, che nella città di Atene e in particolar modo sulla scena del teatro classico trovò la sua massima consacrazione.

Sarà, dunque, la riflessione intorno al tyrannos a dare forma al progetto del 54° ciclo di rappresentazioni organizzato dall'Istituto Nazionale Dramma Antico nella suggestiva cornice siracusana, la sua costitutiva ambivalenza il filo rosso che accompagnerà gli spettatori a scrutare la fisionomia precaria e mutevole dell'uomo di potere, ad indagare le dinamiche altrettanto instabili e imprevedibili secondo le quali il potere stesso agisce; perché nella sorte di chi sta al comando – e che sempre si muove sul crinale tra ciò che è legittimo e ciò che è illecito, che in ogni istante può innalzarsi ai fulgidi vertici della gloria o lasciarsi risucchiare negli abissi dei crimini più abominevoli – è impossibile non riconoscere il destino insondabile e spesso irragionevole di ogni essere umano, l'andamento fluttuante e incalcolabile di ogni esistenza.

Può così accadere che il tyrannos abbia il volto dell'Eracle protagonista dell'omonima tragedia euripidea, il prototipo dell'eroe, da tutti celebrato come il fautore della civilizzazione dell'umanità di cui si è fatto generoso benefattore liberando la terra dalla minaccia di orrendi mostri e di presenze terrificanti. Quell'Eracle che fa ritorno a casa in tempo per salvare il caro padre, la sposa devota e gli amati figli dalla brutale morte loro prospettata dal re Lico; l'uno il sovrano che di diritto dovrebbe regnare su Tebe (vv. 735, 746, 769 anax; v. 809 tyrannos), l'altro il despota empio e scriteriato che si è impossessato del trono con la violenza e che con la violenza ha retto le sorti della città (v. 252 tyrannis, v. 567 tyrannos; vv. 541, 602, 753, 769, 810 anax), identici i titoli di cui entrambi sono fregiati, opposte le modalità secondo cui essi interpretano il loro ruolo. Lo stesso Eracle che, dopo aver ucciso Lico, diviene improvvisamente preda degli impulsi irrazionali che si annidano nel suo animo (che si annidano nell'animo di ognuno), finendo per fare strage proprio di quegli innocenti che poco prima si è precipitato a salvare, mostrando – come già Lico prima di lui (vv. 141, 274, 277 despotes) – il proprio volto di padrone (v. 952 despotes), indomabile, accecato dal furore, fuori di sé. A distoglierlo dai suoi propositi suicidi e a trarlo in salvo è quel Teseo che poco prima di tornare a Tebe Eracle ha salvato trascinandolo fuori dall'Ade, quel Teseo signore di Atene, che è per tutti emblema del governante saggio ed equilibrato e che della città che sorge sul “colle ricco di ulivi” (v.1178) è efficace simbolo politico di celebrazione. Ancora due capi a confronto, l'uno ormai ridotto all'ombra di ciò che è stato un tempo, l'altro l'anax per eccellenza (v. 1178) che continua ad essere ciò che il primo non è più, stretti in un vincolo fraterno a ricordare come il vero eroismo imponga a ciascuno di accettare la realtà dei propri limiti e di assumersi la responsabilità delle proprie azioni, anche di quelle più inconfessabili, anche di quelle compiute senz'averne alcuna coscienza.

Perciò, accade anche che il tyrannos abbia i tratti dell'Edipo che nell'ultimo dei suoi capolavori Sofocle conduce nel demo di Colono alle porte di Atene, dove un oracolo gli ha predetto che dopo lungo peregrinare avrebbe finalmente trovato la pace regalando protezione eterna al luogo che avesse accolto le sue spoglie. Impossibile non andare col pensiero al primo Edipo (sebbene l'Edipo re avesse preceduto di circa vent'anni l'Edipo a Colono), improvvisamente scopertosi autore inconsapevole dell'uccisione del proprio padre e della relazione incestuosa con la propria madre, precipitato dalla soglia regale e trattato dai suoi come il più reietto dei viventi; impossibile non cogliere nell'incedere stanco del vecchio che è ora il peso di tutto quel male, nel suo aspetto ripugnante i segni di tanto dolore. Il tempo non ha operato alcuna catarsi in lui; l'incontro col cognato Creonte (anziano reggente di Tebe) e col figlio Polinice (arbitrariamente scalzato dal fratello Eteocle nella direzione della città), giunti entrambi nel tentativo di ottenere la sua benevolenza in nome di quello stesso oracolo, non fanno che esacerbare il suo livore, spingendolo a scagliare maledizioni su tutti come fossero strali. Eppure, è dal confronto con quei due volti degenerati dell'autorità che Edipo in qualche modo si riscatta; prendendo le distanze dal loro modo personalistico di intendere e vivere il regno, dalla loro smania del primato, dalla loro malsana ambizione (vv. 373, 419, 851, 1293, 1338), egli prende finalmente le distanze anche dalla propria storia, rafforzandosi nella consapevolezza della propria innocenza morale, tornando a far valere la propria potestà, arrivando a pretendere con caparbietà quell'accoglienza che poco prima si è limitato a sperare gli venisse accordata. A concedergliela è ancora una volta Teseo, il supremo anax (vv. 295, 549, 629, 831, 1130, 1173, 1177, 1476, 1499, 1505, 1650) che, tuttavia, Edipo non rinuncia ad ammonire ricordandogli che “moltissime città, anche qualora uno le amministri bene, facilmente sfociano nell'eccesso” (vv. 1534-1535).

Ma in nome del potere può addirittura accadere che si scada nel ridicolo e che il tyrannos si nasconda sotto le sembianze del servo protagonista di una commedia di Aristofane, che dopo l'esordio dello scorso anno torna per la seconda volta nella programmazione del Festival. L'opera in questione è I Cavalieri, Paflagone il servo astuto e calcolatore che ha imparato da tempo a guadagnarsi i favori del suo vecchio e rimbambito padrone, Popolo, incapace ormai di qualunque moto decisionale, totalmente in balia dei meschini raggiri e delle efficacissime piaggerie di quello; grazie all'intervento di altri due servi esasperati, Paflagone viene sostituito da un salsicciaio ancora più abbietto e rozzo di lui, che, dopo essersi ignobilmente arruffianato la stima di Popolo, lo “cuoce” in una magica pozione restituendogli la giovinezza e il senno da tempo perduti. Una vicenda apparentemente banale, se non fosse che dietro i toni grotteschi da storiella familiare a lieto fine essa nasconde l'impietoso ritratto della democrazia degenerata dell'Atene di fine V secolo a.C. e la denuncia avvelenata dei suoi responsabili; di Cleone (Paflagone) in primis, subentrato a Pericle nella guida del partito democratico, il demagogo per antonomasia della commedia antica; ma non meno del demos ateniese (Popolo), divenuto succube dei suoi stessi rappresentanti, incapace di esercitare quella sovranità di cui dovrebbe essere unico e solo detentore. Una vicenda che riproposta oggi quasi spaventa per la sua scottante attualità, per la forza con la quale smaschera i meccanismi distorti che danno forma al consenso, per il rigore con il quale richiama la politica alle sue tante irrinunciabili responsabilità.