È sempre più in crisi, stritola i componenti (madre, figli, più raramente il padre), preoccupa e insieme protegge, o sembra poterlo fare.

Quest’anno se ne parla diffusamente, in modo diretto o indiretto, in molti dei film approdati alla settantaquattresima edizione della Mostra di Venezia. Da prospettive molto diverse. Si fanno vanto di riunire in un solo film tante possibili famiglie di oggi gli sceneggiatori di Una famiglia, di Sebastiano Riso. Nel film si parla della coppia omosessuale, della madre single, della coppia senza figli desiderosa di averne uno a ogni costo. Ma soprattutto di un tipo di coppia di cui conosciamo bene dalle cronache gli esiti, spesso fatali: lei si chiama Maria ed è succube. Lui, Vincent, è distruttivo e delinquente. Sconcerta che, nella sinossi, appaia la locuzione "amore malato", proprio quell’equivoco linguistico che oggi viene strenuamente combattuto, per spiegare alle donne che un uomo che ti priva della libertà e ti soggioga, non ti ama. Questo, oltretutto, la tiene con sé per farle fare figli che venderà. Come se non bastasse, l’interprete di Maria, Micaela Ramazzotti, si dice contenta di interpretare ruoli di donne fragili come questa perché le può aiutare. Non si capisce in che modo, non certo con questo film, più interessato all’estetica che alla denuncia. Molto cinema italiano dovrebbe capire che quello che conta è la magia del racconto, non le buone intenzioni.

Molto piacevole da vedere, sul tema, è Suburbicon di George Clooney, regista che si avvale di una sceneggiatura dei Fratelli Coen che risale agli anni '80, mai realizzata. Il titolo prende il nome da una pacifica e idilliaca comunità periferica d’America, caratterizzata da case a buon mercato e giardini ben curati, il luogo perfetto dove crescere una famiglia. Siamo nell’estate del 1959. Le vicende della famiglia Lodge, padre, madre, figlio e zia-surrogato-della-moglie, resa invalida da un incidente in cui il marito era alla guida, sono descritte con toni graffianti, in un noir molto godibile, che prende posizione col sarcasmo e l’assurdo contro il rinascere oggi in America di idee retrograde che le contestazioni e le lotte erano riuscite a smantellare e che si pensavano ormai superate. Bravi gli interpreti, Matt Damon e Julianne More, che si sobbarca un duplice ruolo, la moglie e la cognata di Matt. Infelice solo la scelta di Clooney del finale, così lontano dallo stile del film. Convinto di dare un messaggio di speranza, è invece riuscito a fare solo retorica patriottica, per fortuna in una scena di breve durata.

Mother di Darren Aronofsky è invece la storia di un matrimonio fra uno scrittore e la sua giovane e bella moglie, devota a lui ai limiti del sacrificio. Anche perché l’impegno che profonde nel ricostruirgli la casa, bruciata da un devastante incendio, non è minimamente ricambiato da effusioni affettive né dal recupero dell’ispirazione perduta. Lei desidera un figlio, ma non ha il coraggio di chiedere nulla. Da queste premesse, un po’ allungate oltre il necessario, ma ben sostenute dagli interpreti Jennifer Lawrence e Javier Bardem, ci si sarebbe augurato che il regista si interessasse al conflitto che per uno scrittore in crisi creativa rappresenta veder nascere un figlio, visto come creatività femminile. Invece il regista segue tutt’altra strada, imbarcandosi in scene deliranti popolate da folle oceaniche venute da lontano in questa casa a impadronirsi del bimbo, in un impasto fra Rosemary’s baby e originali scene corali opera di Darren, che farebbero intendere la distruzione della creazione, sempre che chi guarda riesca a vedere nella casa dello scrittore (ex) la rappresentazione simbolica del Creato. L’ispirazione del film, afferma il regista, proviene dal suo aver realizzato che sono tempi folli in cui vivere. È però il titolo scelto, Mother, che ci ha autorizzato a parlare della sua visione di famiglia. Un’altra frase nella presentazione del suo film "Non sono in grado di dire con esattezza dove affondino le radici di questo film" ci rasserena sul fatto che è incomprensibile non solo per lo spettatore, ma anche per chi il film l’ha concepito.

In Espèces menacées di Gilles Bourdos le famiglie ce le dobbiamo un po’ immaginare, vedendo come si comportano i loro figli, che sono i veri protagonisti. Spersi, votati in vario grado al fallimento nei rapporti amorosi, perché scelgono rovinose scorciatoie che pensano liberatorie, oppure perché sono stati resi incapaci di rapportarsi a una madre totalmente pazza. Un film potente nella narrazione, tipo Tom Ford in Nocturnal Animals, mostra che cosa non è una famiglia. I genitori qui appaiono irrispettosi verso i partner e verso i loro figli, incapaci di ascolto, impositivi e ricattatori, oppure hanno abbandonato troppo presto i figli a se stessi, spingendoli a colmare il vuoto col primo che capita.

Forse è proprio attraverso questo film che, memori della frase del fisico Emilio Segre, "la soluzione di un problema dipende dalla nostra capacità di definirlo", possiamo cominciare a considerare quale tipo di contenuti debba avere, per funzionare, l’associazione la più varia di individui che oggi prende il nome di “Famiglia”.