Mi guardo intorno e vedo oggetti che ormai conosco bene; quattro panchine messe a semicerchio, un poster incorniciato raffigurante un cuore rosso a strisce e un distributore di caffè automatico che eroga un tè argilloso. È un pomeriggio estivo che volge verso la sera in un passaggio morbosamente lungo e delicato.
Chiudo gli occhi, mi allungo un po' sulla sedia e appoggio la testa al muro, tanto nella stanza non c’è nessuno: nessuno sconosciuto con cui condividere un’ansia senza dettagli, nessuno a cui dare informazioni sugli orari delle visite, solo io e la puzza dei disinfettanti.
Chiudo gli occhi e aspetto che l’orario delle visite inizi.
Penso al sangue sulla neve, a come si espande, a come la scioglie; è difficile tenere ferma la mente, difficile capire dove andrà a parare.
Mia mamma da giovane arriva di corsa, ha il fiatone. Indossa dei pantaloni a sigaretta neri e, sui capelli cotonati, ha un'alta fascia bianca.
La guardo e penso che ora se ne andrà, che questa immagine, come tutte quelle che mi attraversano la testa, correrà via, disperdendosi in mezzo alla folla di altre facce, oggetti, paesaggi, parole.
E invece no, mia mamma da ragazza agita una mano per attirare la mia attenzione.
Il suo viso tridimensionale esce fuori dal rullo che fa scorrere gli altri fotogrammi e si impone in primo piano; sembra in affanno, come se rincorsa da qualcuno, ma non è spaventata, anzi sorride, divertita.
"Entra dai, che è tutto un gioco!" mi incita.
Apro gli occhi di soprassalto; sono sempre dentro la saletta d’attesa della chirurgia, la maglietta di cotone che indosso si è leggermente attaccata alla sedia di finta pelle.
L’infermiera si affaccia alla porta come il buttafuori di un locale di estremisti; è già preoccupata della confusione, delle richieste, del chiacchiericcio, dell'onda di vita che per due ore disturberà l'ordine plastificato e razionale di questa sua astronave parcheggiata in mezzo ai campi.
La saluto, lei annuisce.
Sotto il suo sguardo obliquo, varco il confine tra il mondo verticale dei sani, dei progetti, dei sogni, dei soldi, dei muscoli e approdo in un villaggio orizzontale di pigiami, di inerzia e ossessioni.
Porto con me un pesante carico di ottimismo.
Mia mamma, sorridente, chiede all'infermiere di non darle del tu, ma lui ride alla battuta e continua la sua ronda possibilista, chiamando tutte per nome e servendo la cena con mosse spiritose.
Il caffè d'orzo segna la fine del giorno e l'inizio di sogni tutti uguali.
Di notte l'ospedale, navicella modernista dai mille corridoi, base aliena pronta al decollo, rischiara le ombre di questa periferia agricola.