Possiamo essere felicissimi. Le nostre città sono invase da turisti stranieri affamati d'arte, che, tra Venezia e Firenze, Roma e Napoli, Alghero e Assisi, Milano e Palermo, hanno davvero di che sfamarsi. Molto spesso sono presi d'assalto da venditori ambulanti di illustratissime guide, di pieghevoli pieni zeppi di coloratissime foto. Loro, per la verità, per strada, comprano di tutto: gadget e souvenir, modellini di campanili e di torri, cornetti portafortuna e pulcinellini, gondoline e colossei, madonnine e medagliette, cappellini e magliette. Vanno ancora di moda le palle di vetro con la neve sulla testa dei santi e sui monumenti, che reggono bene la concorrenza dei magneti da attaccare alla porta del frigorifero. Ma le raccolte di fotografie a fisarmonica, che pendono dalle braccia degli ambulanti, quelle no, di solito non le vogliono. Perché alle foto ci pensano loro.

Quando sciamano in gruppo, all'ombra dei colonnati e nelle piazze assolate davanti alle chiese, quando s’incolonnano disciplinati in fila per due all’ingresso di un museo, al seguito di una leggiadra guida che imbraccia un ombrellino chiuso o una bandierina, come un alfiere, si danno un gran da fare a inquadrare e a scattare. Tutti armeggiano col loro cellulare che lampeggia col flash alla minima scia di ombra e tossisce imitando il click di una vera macchina fotografica: oggi non c'è telefonino che non sia in grado di riprodurre tutti i suoni e i rumori del mondo e le voci di tutti gli animali scampati al diluvio universale. Sono tutti così presi dal fotografare, che quasi non osservano: puntano il cellulare e cliccano. Sorridono nei selfie con i loro visi enormi e giulivi dietro i quali s’ intravede uno spicchio di San Pietro. Il piacere della contemplazione del Duomo di Milano o del Palazzo Ducale di Venezia, della Torre di Pisa o del Duomo di Monreale, del Lungotevere o del lungomare di Napoli, è rimandato al ritorno a casa, affidato ai servigi del computer e alla potenza del digitale e del virtuale. A loro va bene così. E non c'è nemmeno da rammaricarsi troppo che gli smartphone e gli iphone non siano ancora in grado di soffiare effluvi o aromi, perché ormai tutte le città del mondo, di mare di montagna o di fiume che siano, odorano, tutte alla stessa maniera: di patatine fritte, hotdog, kebab e pizza.

Per non parlare dell’antico rito delle cartoline, ormai tramontato. Del resto, pur a volervi fare ricorso, trovare oggi il francobollo e poi una buca postale sono imprese disperate. Molto più pratico e semplice trasmettere una foto con un WhatsApp nel quale puoi anche metterci il suono di uno smack e un cuoricino o un quadrifoglio che fanno risparmiare tutte la parole che si dovevano trovare per la cartolina.

Che differenza con le indimenticabili e imperfette foto di una volta! E come ne è mutato l’uso! Sono finiti i tempi nei quali la cena a casa di amici finiva sempre col supplizio di guardare insieme il filmino o le diapositive delle vacanze a Capri, alle Canarie, in Versilia, sulla costiera romagnola, tutti inchiodati sul divano come i parenti dello scomparso nella trasmissione “Chi l’ha visto”. Bisognava innanzitutto assistere con pazienza alle manovre di allestimento dell’improvvisata sala di proiezione, con lo schermo ribelle che non voleva saperne di stare srotolato e fermo, la pellicola del superotto che si attorcigliava intorno alla bobina, il caricatore delle diapositive con le foto puntualmente messe a testa in giù. E poi, una volta sistemata l’attrezzatura, scorrevano l’una dietro l’altra le scene più belle: Bobby il barboncino che sguazza felice in acqua; Bibi la piccola che impara a nuotare; Tommy calciatore in erba che manca il colpo al pallone e cade sulla sabbia; il Bepi che cerca inutilmente di trattenere il fiato per nascondere la pancia, la Cinzia che sgrida i piccoli. E per tutti gli spettatori l’obbligo di sorridere e fare complimenti.

I meno tecnologizzati, collezionisti fanatici di quegli album rettangolari con le pagine nere e le copertine damascate o arabescate a rilievo, sfogliavano, sotto il naso degli ospiti, le pagine che raccontavano la storia della vacanza estiva e commentavano, una a una, le foto: fortuna dei malcapitati che la selezione per l’album aveva escluso le foto riuscite male, sfocate, sottoesposte, sovraesposte e confuse per un maldestro movimento della mano del fotografo: il che consentiva di concludere in tempi ragionevoli la consultazione della rassegna. Ma se la coppia che ospitava in casa era di conoscenza fresca, c’era sempre il terrore che dopo l’album delle vacanze, arrivasse quello, assai più voluminoso, del matrimonio, pieno di cugini, zie e nipoti dei quali fornire brevissime note biografiche.

Oggi nessuno penserebbe di offrirvi durante il dopo cena la tortura delle diapositive, del filmino o dell’album. Non si usa più. Oggi le foto degli amici sono sempre in agguato su facebook: te ne trovi improvvisamente una di “Antonio e Felicita in montagna”, affiancata da un minaccioso “+56” : immagini con le quali i due coniugi affidano alla rete la loro intimità familiare in montagna. Al che uno, prima di pensare “ma chi se ne può fregare di meno!” è colpito dai 136 “mi piace”, dagli 87 commenti, già pervenuti, e da una miriade di cuoricini e di faccine sorridenti. Stiamo rincretinendo? Forse, potrebbe commentare qualcuno. Ma almeno, potrebbe obiettare un altro con un senso di sollievo, non siamo obbligati a vederle, per dovere di cortesia, come accadeva nei salotti bene.

Magia e patemi delle foto di un tempo! Lo scatto era un rito da consumare con calma e con sobrietà, con la consapevolezza che l’immagine che ne seguiva sarebbe entrata nelle gloriose memorie di famiglia, e con grande oculatezza, per sfruttare opportunamente le “pose” che il rullino in macchina consentiva: ventiquattro per la trentacinque millimetri e dodici per la grande sei per sei. Gestiva di solito con autorità la macchina fotografica il capofamiglia, che assai difficilmente la cedeva ad altri durante la gita fuori porta, il festeggiamento del compleanno e le prime comunioni. Il costo del rullino e dello sviluppo, e il numero contingentato degli scatti consentiti, rendevano tutti più sobri e contenuti in questi reportage alla buona.

Reflex o “a mirino”? Con o senza esposimetro? Messa a fuoco automatica o manuale? Ognuno faceva la sua oculata scelta prima di investire in un bene di famiglia abbastanza costoso, ma, allora, durevole. E poi c’era l’attesa dei tempi dello sviluppo, due o tre giorni di trepidazione e, alla fine, il rito della riunione di famiglia per guardarle e commentarle. Nei nostri archivi di famiglia ne conserviamo di queste vecchie foto in bianco e nero, spesso di formato piccolo, non sempre perfettamente a fuoco, coi bordi dentellati; alcune hanno le dediche davanti a volti sorridenti, alcune la data premurosamente appuntata sul retro. Guardarle è sempre un divertimento: si recuperano ricordi, spesso chiedendosi, chi è mai quel tizio di cui abbiamo perso memoria che sorride con noi.

Rivedete in internet quanto erano affascinanti quelle macchine fotografiche, spesso piccoli gioielli, chiusi nelle loro custodie di cuoio, portate orgogliosamente a tracolla senza la preoccupazione che potessero scipparle per strada. Eravamo più soddisfatti allora con dieci fotografie per le quali avevamo scelto le ambientazioni più panoramiche e le pose più divertenti? O siamo più soddisfatti oggi con le duecento foto al mare che tutti i componenti della famiglia si sono scattate l’uno con l’altro, ognuno col suo cellulare?

Ci risponderà probabilmente, tra qualche anno, uno specialista di storia sociale della fotografia.