L'Architettura è il contenitore principale della Memoria. Possiamo vivere senza di lei ma non possiamo ricordare senza di lei.
(John Ruskin)

Nella vita di una persona hanno una parte non indifferente le “giornate no”, quelle in cui tutto ciò che può fallire lo fa e se qualcosa è minimamente salvabile, neanche lo si nota, perché comunque non è giornata. Più avanti nel tempo però non è affatto escluso che quelle stesse giornate vengano ricordate come fasi imprescindibili, rivissute come pause feconde e ringraziate come necessarie cesure. È un processo di rielaborazione lungo, tortuoso e tutt'altro che scontato.

Anche la vita di una città ha le sue giornate no, da intendersi come fasi della sua crescita che, per motivi disparati, provocano nella popolazione un moto di rifiuto, perlopiù di carattere estetico. Succede anche a Genova, campionario di svariate epoche architettoniche segnato ancor oggi da un rapporto conflittuale col Moderno, al quale si continua a preferire la rendita culturale e turistica derivante da epoche già abbondantemente storicizzate.

Uno dei maggiori teatri di scontro fra Genova e il Novecento è un luogo che, sulla carta, dovrebbe celebrarne il felice connubio: una delle piazze più grandi, l'unica affacciata sul mare aperto, soleggiata, porticata e arricchita da un ampio giardino centrale. Si tratta di Piazza Rossetti, comunemente evitata dai Genovesi perché “smorta”, “squallida”, “brutta”, “circondata da palazzacci anni Sessanta”. Partiamo allora da quest'ultimo commento, sintomatico di una diffusa scarsa consapevolezza in materia: quei “palazzacci” vanno retrodatati di trent'anni, essendo uno dei più massicci e, forse, interessanti interventi razionalisti in Italia: già questo dettaglio è spesso sufficiente a smorzare la foga censoria dell'uomo della strada.

Il resto poi rientra nel problema più generale dell'incomprensione del Moderno da parte del pubblico. A fronte infatti di un repertorio classico-accademico che secoli di pratica hanno reso familiare anche ai non addetti ai lavori, la rottura operata dal Moderno provoca un tale disorientamento da scatenare troppo spesso reazioni di rigetto. Non si capisce l'architettura del Novecento senza averne chiaro il contesto. Non si capisce il Modernismo senza studiarne gli autori. Non si capisce Piazza Rossetti senza conoscere Luigi Carlo Daneri, protagonista indiscusso del dibattito architettonico e urbanistico genovese fra gli anni Trenta e Sessanta.

L'osservatore che si inerpicasse sul tetto di uno dei grattacieli del centro di Genova non potrebbe non sentirsi letteralmente accerchiato dall'opera di Daneri, scorgendone esempi in tutte le direzioni: limitandosi ai più vistosi, l'insediamento INA-casa “Mura degli Angeli” a ovest, il colossale “Biscione” (INA-casa “Forte Quezzi”) a nord, il monoblocco dell'ospedale San Martino a nord-est, il Residence Park Riviera a est; infine, a sud-est, il quartiere fieristico e appunto i volumi svettanti di Piazza Rossetti.

Senza esagerazioni, Daneri è, in definitiva, il demiurgo del volto contemporaneo di Genova. È allora quantomeno stridente il confronto fra una presenza materiale sul territorio quantitativamente massiccia e qualitativamente elevata, e un'assenza clamorosa nella memoria collettiva, nonché un ruolo secondario nella storiografia consolidata: un bilancio provvisorio decisamente avaro di riconoscimenti, malgrado nell'ultimo decennio sia emerso un rinnovato interesse per questo professionista. Verosimilmente Daneri paga, da una parte, il regime di quarantena cui è sottoposta in generale l'architettura modernista italiana, ancora comunemente sentita come il cavallo di Troia della speculazione edilizia degli ultimi cinquant'anni; dall'altra, il fatto di essere non solo un raffinato progettista ma anche un ottimo impresario dallo spiccato senso per gli affari, è stato probabilmente interpretato da certa critica come una mancanza di purezza o, peggio, una forma di “esecrabile” pragmatismo, condizione più che sufficiente in alcuni ambienti per dipingerlo come un palazzinaro, seppure d'alto bordo.

Sicuramente però nei primi anni Trenta Daneri è già noto. Dopo l'inevitabile gavetta presso professionisti di gusto eclettico (nel suo caso, l'arcinoto Gino Coppedé), come tanti suoi coevi se ne affranca abbracciando il nuovo corso inaugurato da Le Corbusier, per il quale nutre un'autentica venerazione, come testimoniato da un fitto carteggio. Alcuni dei suoi clienti gli permettono allora di poter realizzare le prime opere secondo il nuovo approccio razionalista: Villa Venturini e Villa Vitale, più funzionale quest'ultima al caso nostro poiché in essa si ravvisa un campione delle successive facciate laterali di Piazza Rossetti. Sempre Daneri si fa notare in occasioni pubbliche: alla V Triennale di Milano egli è capofila di un gruppo di progettisti liguri che espone un prototipo di edificio multipiano, a struttura in acciaio, bianco, vetrato e balconato: di nuovo un'anticipazione di Piazza Rossetti, in questo caso i prospetti di testa.

Fatte queste premesse, immaginare la successiva edificazione di questo grande spazio come una mera sommatoria di componenti già elaborate in precedenza è una tentazione forte, nonché un errore madornale. Per contro, approfondire l'operazione di Piazza Rossetti significa sfatare, almeno in questo caso, una delle principali rimostranze verso il Moderno. Quella di autoreferenzialità, di indifferenza al contesto in cui si colloca o alle preesistenze. Eppure esistono altri esempi in tal senso, sia a Genova sia nella carriera di Daneri: nel 1937, in prossimità delle mura cinquecentesche sulle alture a monte del centro storico, Camillo Nardi Greco e Lorenzo Castello realizzano la Scuola della Giovane Fascista, il cui nucleo compositivo e distributivo, un grande volume cilindrico scavato da finestrature a tutt'altezza, viene generalmente visto come un episodio tardo futurista, ma di fatto reinterpreta una preesistente torre corazzata ottocentesca. Nel 1939 entra in funzione a Santo Stefano d'Aveto la colonia montana per l'infanzia “Rinaldo Piaggio”, probabilmente il capolavoro di Daneri, progettata coniugando gli imprescindibili riferimenti aeronautici della committenza con il retaggio degli essiccatoi rurali per la lana.

La genesi di Piazza Rossetti si colloca invece negli Anni Venti, allorquando nel vicino Levante genovese, il corridoio dalla stazione Brignole al mare è coinvolto nel riassetto urbanistico della città, sull'onda del riordino amministrativo che ha portato all'istituzione della “Grande Genova”. Spina dorsale del ridisegno di questa zona è la copertura del torrente Bisagno, atto gravido di conseguenze auspicato da inizio secolo in nome del decoro (e della speculazione) e coevo ad altri tombinamenti di vie d'acqua, a Bologna come a Milano. Lungo il cantiere del Bisagno ci sono due grandi “vuoti”: a nord-ovest, dinanzi alla stazione, la spianata dell'ex-Piazza d'Armi fra il 1925 e il 1940 assume l'assetto delle attuali piazze Verdi e della Vittoria, secondo la volontà progettuale di Marcello Piacentini, dominus dell'architettura italiana del Ventennio; a sud-est invece, dal 1931è libera l'area già dei Cantieri navali della Foce, che dopo un primo riuso come villaggio balneare diventa oggetto di concorso per una grande piazza sul mare.

Il tema, già interessante di per sé, ha forse un valore simbolico mai del tutto indagato: grandi piazze sul mare aperto, nel 1934, non ci sono né a Genova né in altre città italiane: peggio ancora, un caso esiste ma è la Piazza Grande di Trieste che, malgrado la ridedicazione in Piazza Unità d'Italia, rimane un luogo di matrice irrimediabilmente asburgica. Si può allora azzardare che il nuovo spazio genovese voglia anche sancire la fine di un imbarazzante primato: pur non risultando cenni ufficiali a questo parallelismo, è pur vero che le due piazze hanno estensione quasi identica, seppure a dimensioni invertite.

Il bando prevede, sul fronte opposto al mare, un grande edificio pubblico destinato a manifestazioni e spettacoli mentre sui lati richiede palazzi per uffici e abitazioni. Il concorso richiama molte grandi firme del momento e viene vinto dal gruppo capeggiato da Robaldo Morozzo della Rocca, che ripropone in chiave metafisica lo schema della Praça do Comércio di Lisbona. Accade però che Daneri, classificatosi secondo, riesca comunque a imporre la propria idea: è un passaggio molto chiacchierato, che probabilmente ha contribuito alla non buona fama di Piazza Rossetti, almeno fra i professionisti genovesi, per cui ancor oggi c'è chi si rifiuta di elaborare una valutazione in merito a qualcosa che non dovrebbe nemmeno esistere. Di fatto Daneri, tramite la società immobiliare del cognato, comprò sei degli otto lotti edificabili coinvolti nel progetto, dopodiché ebbe facile gioco a ottenere un ripensamento dalle autorità comunali, il cui consulente urbanistico era l'onnipresente Piacentini, amico di Daneri.

Il risultato è una serie di lame candide puntate verso il mare, alte quasi il doppio dei palazzi circostanti e raggruppate quattro a quattro nelle penisole laterali del grande basamento porticato che definisce la piazza. Il clamore è grande ed esteso per questo progetto che, presentato anche alle esposizioni internazionali di Parigi (1937) e New York (1939), nonché alla VII Triennale di Milano (1940), viene definito “la prima piazza moderna d'Italia” (Casabella, 1941) e riceve il plauso personale dello stesso Le Corbusier (1938). Purismo francese, precetti del CIAM, razionalismo italiano, suggestioni Bauhaus, precedenti olandesi: tutta l'Avanguardia sembra convergere sulla foce del Bisagno, così come svariate sono le argomentazioni, finora addotte per spiegare questo intervento, che però sembrano sempre soffermarsi su questo o quel singolo aspetto, senza mai trovare una chiave di lettura omnicomprensiva. Argomentazioni prodotte, guarda caso, cercando sempre e solo all'interno del Moderno, in virtù di quella sua presunta autoreferenzialità che poi gli sarà tanto rinfacciata.

Una rilettura dell'intervento daneriano che tenga nella dovuta considerazione la storia del luogo, porta invece a individuare un'immagine archetipica in grado di tenere insieme tutto e di subcondurre tanto l'elaborazione, apparentemente arbitraria, del progetto di Daneri quanto la sua accettazione, apparentemente inconcepibile, da parte delle Autorità, mettendo in luce al contempo la banalità dei concorrenti. Piazza Rossetti si discosta dai dintorni così come faceva ciò che sorgeva al suo posto: i cantieri navali Odero, isola di eccellenza industriale e tecnologica attorniata da campi coltivati e casette di pescatori. Il nuovo insediamento, scelta architettonica innovativa destinata all'alta borghesia diversamente dall'edilizia circostante pensata per la classe media, ripropone il precedente distacco socio/tecnologico fra i cantieri e le campagne. Ecco allora che una distinzione apparentemente gratuita inizia a rivelarsi emblematica di una maggiore sensibilità.

I piroscafi dei cantieri navali, presenza costante nel panorama della Foce per un secolo, si reincarnano nei blocchi di Piazza Rossetti, che ne ripropongono la sagoma incombente sull'abitato limitrofo, il repertorio formale fatto di ponti e fumaioli, la monocromia delle candide murate. Più che negli accaparramenti fondiari e dei favoritismi altolocati, è in questa matrice subliminale, inconscia e dirompente, la vera forza di un progetto che riesce ad avere la meglio sulle graduatorie ufficiali del concorso, sul regolamento edilizio del Comune e, infine, su una servitù di visuale libera rivendicata da alcuni condomini del vicino colle di Albaro.

L'opera di rievocazione però non si limita ai soli cantieri Odero, eccellenza locale e nazionale (negli Anni Trenta, in base al riordino industriale condotto dall'IRI, sarebbero diventati la prima iniziale di “OTO-Melara”), ma impiega riferimenti all'intera realtà portuale genovese, fra i cui docks ottocenteschi spicca Ponte Colombo, penisola rettangolare suddivisa in quadranti con annessi magazzini secondo gli assi mediani, impianto ravvisabile nelle ali di Piazza Rossetti.

Accanto alla foce del Bisagno insomma si eterna una storia conclusa e si celebra la coeva gloria di un grande porto: sulle testate di questi bastimenti realizzati in calcestruzzo armato ma concepiti, guarda caso, in struttura metallica, non sfigurerebbero affatto i nomi “Roma”, “Augustus”, “Conte di Savoia”, “Rex”. La stessa edificazione della piazza sembra accompagnare le alterne vicende della cantieristica navale genovese: quando nel 1939 il lato est può dirsi concluso, nei non lontani bacini di carenaggio è in fase di ultimazione la corazzata Littorio, capostipite dell'ultima generazione di grandi unità della Regia Marina; nel raggio di poche centinaia di metri sono compresenti due estremi dell'Italia. Estremi di avanguardia tecnologica e architettonica, ma anche estremi di arretratezza tattica e sociale: di lì a poco la Grande Storia dimostrerà brutalmente l'assoluto anacronismo sia delle navi da battaglia sia di grandi appartamenti di lusso, organizzati in zone padronali e di servizio con tanto di ingressi separati, emblematici di un mondo suddiviso non tanto in classi quanto ancora in ceti. Pochi, drammatici anni e davanti al cantiere interrotto di Piazza Rossetti sfila sotto scorta, diretta verso una fine senza storia, la mai ultimata portaerei Aquila, incarnazione della totale inadeguatezza dell'apparato monarchico-fascista alle sfide della modernità.

Genova torna alla vita, la cantieristica riparte e i lavori della piazza riprendono: il processo di completamento dell'ala ovest è coevo all'epopea dell'Andrea Doria, concludendosi poco prima. Il resto dell'edificazione è un procedere stanco, svogliato, rallentato dalla sproporzione dell'offerta rispetto alla domanda. L'ultimo lotto, il lato nord della piazza, affossa definitivamente l'idea di un luogo multifunzionale, gravitante intorno a un centro ludico/sportivo/culturale che richiami pubblico e ravvivi l'intera zona. È una perdita assai poco sorprendente per Genova, città capace di tollerare per quarant'anni, in pieno centro, un teatro dell'Opera in macerie. Ecco allora che il grande Foro litoraneo immaginato da Daneri si riduce a un gigantesco giardino condominiale, mentre il mare viene sospinto lontano dagli interramenti per la realizzazione di uno squallido parcheggio di servizio alla neonata Fiera. È il colpo di grazia.

Parallelismi, analogie e allegorie sono allora la vera forza di Piazza Rossetti, nonché la sua principale colpa: un testimone scomodo, un appunto indelebile, l'orecchietta a una pagina che lascerà il segno. Per contro, i dintorni della piazza piacciono: piace ai più una maxi lottizzazione ottocentesca che ha disseminato di cubetti decorati la bassa piana del Bisagno; piace la regolarità rassicurante di una speculazione su vasta scala che, secondo un approccio del tutto antitetico a Daneri, per aprire grandi viali da monte verso mare ottimizzando i profitti spiana le preesistenti vie litoranee poste su argini, cancellando così la memoria della pericolosità del Bisagno ed esponendo le successive generazioni a drammatiche sorprese. D'altra parte la memoria è una responsabilità e ricordare è un ruolo ingrato. Molto meglio allora lasciarsi raggirare dalla ruffianeria di una facciata vezzosa.

E poco importa se poggia su fondamenta fradice.

Bibliografia:
P.D. Patrone, con E.D. Bona, Daneri, Genova 1982
P. Cevini, Genova anni '30 - Da Labò a Daneri, Genova 1989
F. Rosadini, Luigi Carlo Daneri. Razionalista a Genova, Roma 2002
AA.VV., Architetture in Liguria dagli anni Venti agli anni Cinquanta, Milano 2004
W. Sirtori, L'architettura di Luigi Carlo Daneri, Milano 2013