L’idea di “paesaggio” come la intendiamo oggi non è universale né atemporale. Philippe Descola, antropologo e allievo di Lévi-Strauss, ci invita a riflettere su come la nozione stessa di paesaggio sia una costruzione culturale emersa con il Romanticismo europeo. Per i romantici, il paesaggio non è un dato naturale, ma una forma di percezione selettiva: uno sguardo che separa l’osservatore dal mondo, collocandolo in una posizione contemplativa ed esterna. In questa visione, la natura diventa un oggetto estetico da ammirare, da rappresentare in quadri e fotografie, da attraversare nei viaggi e nelle escursioni, ma raramente da abitare davvero.
Questa distanza tra soggetto e ambiente è una delle eredità più radicate della modernità occidentale. È lo sguardo del pittore paesaggista, del viaggiatore solitario, del romantico che cerca nella natura il riflesso dei propri turbamenti interiori. Ma esistono altri modi di conoscere e di raccontare i luoghi. In molte culture indigene, il paesaggio non è un’immagine esterna, ma una rete viva di relazioni, memorie, storie e percorsi. È cantato, narrato, danzato. In Amazzonia, ad esempio, alcune popolazioni descrivono il territorio attraverso i canti che tracciano rotte fluviali e terrestri, seguendo il volo degli uccelli o le traiettorie di animali totemici. Il canto diventa una cartografia orale e sensoriale, una guida per orientarsi nel mondo attraverso il mito e l’esperienza.
Un esempio emblematico di questa concezione relazionale del paesaggio si trova nell’Odissea, che, ben prima di essere canonizzata come poema epico centrato su Ulisse, funzionava come dispositivo di trasmissione geografica orale. La narrazione delle tappe del viaggio di Ulisse non aveva solo valore mitologico, ma permetteva di ricordare, attraverso strutture ritmiche e mnemoniche, luoghi, pericoli e rotte del Mediterraneo. Come osservano diversi studiosi della classicità, le peregrinazioni di Ulisse delineano una geografia esperita attraverso il racconto cantato, che univa memoria, orientamento e conoscenza del territorio. In questo senso, l’Odissea può essere letta come una forma antica di mappatura: un atlante poetico tramandato dalla voce degli aedi, nel quale ogni isola, tempesta o approdo assumeva la funzione di punto di riferimento culturale e spaziale. La geografia omerica non si offre dunque come descrizione oggettiva del paesaggio, ma come topografia mitica e narrativa, costruita dalla relazione tra parola, corpo e luogo1.
Philippe Descola, nel suo fondamentale Oltre natura e cultura (2005), propone una radicale decostruzione del concetto occidentale di “natura” come dominio separato dall’uomo. Per l’antropologo francese, ciò che chiamiamo natura non è un dato universale, ma una costruzione storica e culturale specifica dell’Occidente moderno, nata in particolare nel pensiero cartesiano e poi rafforzata dalla scienza positivista. Questa idea implica la divisione netta tra soggetto e oggetto, tra umano e non umano, e ha prodotto una forma di conoscenza basata sull’osservazione distaccata, sulla classificazione e sull’astrazione.
Descola identifica quattro modi principali di “ontologizzare” il mondo, cioè di organizzare i rapporti tra esseri umani e non umani:
Naturalismo – tipico dell’Occidente moderno, dove si presume una continuità fisica (tutti gli esseri viventi hanno un corpo simile) ma una discontinuità interiore (solo l’uomo ha una mente, una soggettività, una cultura). La natura è vista come uno sfondo oggettivo e misurabile, da studiare, dominare o proteggere.
Animismo – prevalente tra molte popolazioni dell’Amazzonia, della Siberia e del Nord America, dove ogni elemento del mondo (animali, piante, fiumi, montagne) è dotato di interiorità, intenzionalità, relazionalità. In questo schema, gli umani condividono una continuità spirituale con gli altri esseri, ma possono differire nella forma corporea.
Totemismo – diffuso in molte culture aborigene australiane, stabilisce un’identità strutturale tra gruppi umani e non umani attraverso il totem, una sorta di archetipo ancestrale. Le relazioni sono organizzate secondo linee genealogiche, in una rete di corrispondenze tra entità viventi, clan e paesaggi.
Analogismo – presente nelle cosmologie cinesi, andine e premoderne europee, dove il mondo è concepito come un insieme frammentato di entità diverse ma collegate da corrispondenze occulte. È l’universo degli influssi, dei simboli, delle energie. Qui ogni elemento è distinto, ma connesso da somiglianze e risonanze.
Descola ci invita a relativizzare la nostra visione e a riconoscere che il modo occidentale di guardare il mondo – quello che riduce la natura a risorsa, oggetto di studio o spettacolo – è solo una delle molte possibilità. In molte società non moderne, il paesaggio non si osserva “da fuori”: si ascolta, si percorre, si canta. Non si tratta di vedere “la natura”, ma di sentirla nella relazione: con il corpo, con la memoria, con il mito. In questo senso, l’idea di paesaggio come oggetto estetico – tipica della cultura romantica – appare come un’anomalia storica, fondata su una distanza che altre cosmologie non prevedono. Tornare a queste altre visioni non significa idealizzare l’“altro”, ma aprire la nostra immaginazione ecologica.
La Colombia, paese di straordinaria biodiversità e complessità territoriale, si trova oggi in una posizione cruciale nel ripensare il rapporto tra urbanizzazione, natura e cultura. Dopo decenni di conflitti interni, disuguaglianze e espansione urbana incontrollata, molte città colombiane stanno vivendo un momento di trasformazione, spostando l’attenzione dalla crescita verticale e speculativa a forme di rigenerazione territoriale più attente al contesto, alle comunità e al paesaggio. In parallelo, vaste aree rurali ed ecosistemi unici – come le foreste amazzoniche, le Ande e le zone costiere caraibiche – sono sempre più minacciati dalla deforestazione, dalle estrazioni e dalla monocultura.
In questo scenario si inseriscono esperienze che rappresentano un’alternativa radicale alla logica smart o tecnologica delle città globalizzate, proponendo invece una “intelligenza vernacolare”, capace di leggere i territori con occhi radicati e visioni lungimiranti. Due esempi emblematici sono la Fondazione Organizmo, attiva nella savana di Bogotá, e l’eco-insediamento visionario di Las Gaviotas, nella regione del Vichada.
Fondazione Organizmo
Fondata da Ana María Gutiérrez, architetta, artista e pedagoga, Organizmo 2 è un centro sperimentale e formativo che promuove architettura naturale, biocostruzione e tecnologie ancestrali. Situata nei pressi di Tenjo, non lontano dalla capitale Bogotá, la fondazione si configura come un luogo di apprendimento esperienziale, dove si costruiscono edifici con terra cruda, bambù, fibra vegetale e materiali locali, intrecciando conoscenze indigene, design contemporaneo e pratiche comunitarie. Il paesaggio non è sfondo, ma materia vivente, “maestra silenziosa” con cui entrare in dialogo. Gli edifici non sono oggetti isolati, ma espressioni coerenti del terreno, del clima, della cultura.
L’approccio di Organizmo si oppone alle retoriche estrattive della sostenibilità “green” imposta dall’alto: qui la sostenibilità nasce dal basso, da una dimensione decoloniale, femminile e sensibile. L’architettura non è il fine, ma il mezzo per guarire territori e comunità, per riattivare saperi dimenticati e immaginare futuri inclusivi.
Organizmo presenta un approccio innovativo alla rigenerazione territoriale radicato nella lettura rispettosa del paesaggio, inteso come connettore tra bioregione e cultura, e propone una pluralità di strumenti per questo dialogo. La “Casa del Pensiero”, ispirata all’architettura dei luoghi cerimoniali di diverse etnie colombiane, si basa sulla geometria sacra del toroide per stimolare conversazioni tra umani e non umani, attivando canali simbolici e spirituali con il territorio. Organizmo ha inoltre istituito residenze artistiche incentrate sulla co creazione etica tra pratiche corporee e paesaggio, rivolgendo lo sguardo alla relazione tra gesto, parola e pensiero integrati nel tessuto della terra.
Nel settore della restaurazione ecologica, negli ultimi dieci anni è in corso un piano di ripristino del bosco nativo della sabana di Bogotá, basato su dati paleoecologici e processi naturali spontanei: si introducono specie autoctone, ma si lascia spazio all’autoorganizzazione, favorendo una convivenza tra vegetazione spontanea e autoctona. Con i talleres de restauración ecológica, Organizmo propone laboratori teorico pratici che integrano agroecologia, permacultura, biodinamica, relazione ecosistema polinizzatori e salute alimentare, per formare progetti sostenibili in dialogo con le sfide planetarie.
Fra i progetti più significativi emerge “Lábil”, un laboratorio rifugio per il sapere condiviso sui polinizzatori del Bosque Andino, che include installazioni scultura come Ocelo e Labro, pensate come habitat per api, bombi e insetti impollinatori, costruite con terra e materiali locali, concepite come tributo e supporto al delicato equilibrio sensibilmente tra interdipendenza di specie. Seguendo il filone della bio costruzione, Organizmo propone iniziative come laboratori su argilla e paesaggio che esplorano tecniche vernacolari (e.g. forno di argilla, adobe, bahareque) guidate da maestri artigiani, con l’obiettivo di rigenerare un rapporto tattile e simbolico con la terra.
L’area Comunidad y Hábitat sviluppa modelli rigenerativi ed educativi basati su sapere locale e tecnologie alternative, e comprende interventi nei tradizionali saperi andini (artigianato, agricoltura, agroecologia, cucina) per rafforzare identità culturale e resilienza di comunità marginali. Accanto a ciò, il servizio di consulenze rigenerative offre metodologie per analizzare territori e culture, guidando design partecipativi che intendono generare impatto ambientale e sociale positivo, radicato in una visione sostenibile e replicabile.
Infine, Organizmo lavora con enramadas, infrastrutture effimere erette in dieci giorni grazie alla co progettazione comunitaria (ad esempio con le popolazioni Wayuu della Guajira), e con una riflessione museografica che intreccia corpo, ritualità, arte e paesaggio come strumenti di riconciliazione con il territorio.
Las Gaviotas
Molto prima che la sostenibilità diventasse un mantra globale, negli anni ’70 l’ingegnere e inventore colombiano Paolo Lugari fondò Las Gaviotas3, un villaggio sperimentale in piena savana llanera, in una delle zone più povere e desertificate del paese. L’obiettivo era dimostrare che anche in un territorio “impossibile” si poteva vivere in modo dignitoso, autonomo e in armonia con l’ambiente. In pochi anni, Gaviotas divenne un laboratorio vivente di innovazione ecologica: furono sviluppate turbine eoliche a basso costo, pompe d’acqua azionate da bambini, ospedali a energia solare, scuole bioclimatiche. Piantando milioni di alberi di pino caribea su suoli esausti, i gaviotanos hanno dato vita a una foresta rigogliosa che ha rigenerato la biodiversità locale.
Ma più che un insieme di tecnologie, Las Gaviotas è un modello culturale: una comunità che rifiuta l’assistenzialismo e l’individualismo, che costruisce cooperazione, bellezza e resilienza. In un’epoca in cui molte smart city si basano su sorveglianza, digitalizzazione e privatizzazione, Gaviotas propone una “intelligenza ecologica” fondata sull’ascolto del territorio e sull’autonomia collettiva.
Questi due esempi – uno vicino alla capitale, l’altro in una delle aree più marginali del paese – mostrano come sia possibile ripensare il paesaggio urbano e rurale come alleato, non come oggetto di controllo. Ci insegnano che esistono futuri urbani alternativi, non basati su algoritmi o acciaio, ma su terra, memoria e relazioni.
Note
1 Morena Deriu, Nēsoi. L'immaginario insulare nell'Odissea, Edizioni Ca' Foscari.
2 Fondazione Organizmo.
3 Las Gaviotas.