Ti ho sentita. Ti ho sentita e vista, nell'incavo del braccio.
Infinita e assente, come di te, continuamente, dice lo sguardo.
Pensavo di aver perso tutto, memoria, fantasia. Ricordarti o inventarti, un modo alternativo ad un qualsiasi altro modo per riaverti.
Quando tu scendi le scale arrivi dall'altra parte del mondo, e qui si ghiaccia tutto. Si materializza la distanza, questa bolla gigantesca d'aria che chiama altra aria, la mia, fino a soffocarmi. Quando tu scendi quelle scale non esiste più il mondo.
Ma io ho guardato la scia invisibile delle tue mani sul mio corpo. Mentre nudo resto in attesa di riprendere fiato (se la distanza decide per la mia sopravvivenza).
E tu sei apparsa. In questo mio circuito di linee irregolari che qualcuno ha chiamato vene, arterie, capillari. Questa mappa che non conduce a niente, ma che ti contiene.
Che vive di te, come me. Che io delimito, comprendo, capisco. Che abbraccio con la pelle e sono la tua pelle. Questo fluido che sei, e che si chiama sangue. Ti ho trovata. Ho guardato sui polsi, diramazioni di te. Che ti colori di altri colori. Ti fai sfumature fredde, eppure sei un rogo.
Eccoti qui, sangue, in stradine verdi e blu fino al mio cuore. Fino al cuore mio, che ti stringe e ti libera, che ti scuote e ti spinge, violento, necessario, come quando ti scopo (ma che significa, poi, questa parola, con te... “scopare”. Ma scopare cosa? Tu mi piangi dentro l'amore).
Sangue, che io voglio, nel ricordo primitivo dei miei canini, nella traduzione di me che chiamo male. Voglio vederti, averti sulla lingua, che sai di lacrime e di bene, tu, che sai di nostalgia.
E allora buco, io, volente. Con aghi e lame, di cui è piena la mia vita. Trafiggo la pelle nostra, fino a te. E tu compari, liscia e minuscola come sempre, tu, nelle mie mani.
Rossa di un rosso che quasi non ricordo, che non somiglia a niente, che mi scolora.
Sei un rubino liquido, sei un insetto, una coccinella, un guscio morbido che trattiene l'esplosione della mia esistenza. Ti guardo e penso: sei tu. Mai più sarai tanto Tu come lo sei adesso. Ti guardo e penso, che io ti guardo, e penso, come non mi capiterà mai più, di guardare, di pensare. Ti guardo e penso, e succhio. Succhio come quando sono nato, e il giorno dopo. Succhio come quando ho tagliato gli angoli sacri di mia madre per cibarmi, senza avere coscienza del dolore, di nessun dolore. Ti guardo, succhio, bevo, che non voglio più far entrare niente, in me, che non sia tu, e l'aria. Tu e l'aria. Bevo e taglio, ancora, e tu esci dappertutto e mi dici “piano, ti farai morire”, ma cosa importa, tu mi torni dentro, tu mi farai morire, non io, non la mia mano.

Qualsiasi cosa sarò, vuoto o pieno di te, qualsiasi fine io farò, da questo momento in poi, tu mi torni dentro. Tu mi torni dentro. Nessun “tu” e nessun “io”. Solo “Dentro”, e il tuo ritorno.