Enrique Vargas da Bogotà, antropologo, regista, fondatore del Teatro de Los Sentidos di Barcellona, è un sapiente. Risoluto e carezzevole irretisce lo spettatore-viandante e lo porta in luoghi fondamentali: nel profondo dell’essere, al principio del tempo, oltre la condanna odierna all’esibizione. Offre spunti di libertà e alcune risposte esistenziali attraverso un percorso sensoriale che aiuta l’individuo a riconquistare l’armonia fra mente e cuore e a intessere con gli altri un autentico dialogo.

Poco prima che io entrassi nel mondo di Vargas, Marina mi consigliò di abbandonarmi. Siccome Marina è una gran dama e insieme un monello di lei c’è da fidarsi. Mi abbandonai. Lo spettacolo era Oracoli, settembre 2011.

Sola e scalza mi avventurai in un labirinto buio rischiarato di tanto in tanto dalle luci delle dimore degli attori -abitanti, ciascuno nei panni di un arcano maggiore di un mazzo di tarocchi. Attrice-visitatrice alle prese con la Giustizia, il Diavolo, la Morte, papi e papesse, imperatrici, fui travolta dallo stupore, dal piacere, dal turbamento, dalla verità, dalla curiosità e passai in quel labirinto di tendaggi un tempo che non saprei dire. Ricordo la meraviglia di cadere in una conca di grano, di passare le dita fra i chicchi, affondando con la Morte in quella morbidezza. La brutalità del Diavolo nella sua fucina di violenza, l’ondeggiare di panni stesi e il loro profumo, gli abbracci nell’oscurità, i giochi, le soste stabilite, le scelte da compiere.
Ricordo di aver provato: la libertà, innanzitutto da me stessa, la speranza, la sensualità della gioventù, la trepidazione in attesa della sorpresa-sfida interiore successiva, la distanza dal quotidiano e la vicinanza all’assoluto.

Nel settembre 2012, ho riaperto la porta del mondo di Vargas: lo spettacolo era Fermentación. Un viaggio attraverso il processo di creazione del vino. Un invito a recuperare tutti i nostri sensi.

Scalza, ma questa volta non sola, ho “vendemmiato” nella “campagna” di Vargas pestando i chicchi d’uva, riposando in attesa della fermentazione alcolica, bevendo il vino e ballando nell’aia. Sempre fra il buio e gli sprazzi di luce calda di un altro labirinto-teatro.

Ho provato la libertà, ancora. La gioia di afferrare l’essenza delle cose, degli acini da schiacciare, il che non c’entra niente con il vagheggiare una vita lontana dalla città per sostituire la sgradevolezza del traffico con la sgradevolezza di pulire un porcile. Forzature datate che spesso creano frustrazioni rurali invece che frustrazioni metropolitane. Intendo il ritrovare la dignità dei gesti e dei pensieri.

Senza condiscendenza, privo della spocchia sotterranea diffusa in certi ambienti, spocchia da iniziati che, anche quando è vergognosa di sé e si cela, sempre affiora e sciupa. Con audacia per dare allo spettatore la possibilità di uscire allo scoperto, ma senza violarlo mai, Vargas fa il contrario di quello che fanno troppo in troppi: uniformare le coscienze con l’oscenità dell’apparire senza ragione, valorizza l’individuo e il suo segreto quindi la sua forza. Sento per lui una gratitudine infinita.