Il narratore e la sua opera non servono a niente se non servono, in un modo o nell'altro, all'uomo e all'umanità.

Con queste parole Ivo Andrić (Travnik 1892, Belgrado 1975), conclude il suo discorso da vincitore del premio Nobel per la letteratura, nel 1961. Aveva ormai settant'anni, quando arrivò, forse inaspettato, in un periodo di grande confusione storica. Ivo Andrić è lo scrittore de Il ponte sulla Drina, quel ponte che Mehmed Pascià fece costruire a metà del XVI secolo, a Višegrad, quale simbolico passo tra Oriente e Occidente. Mezzo serbo, mezzo croato (ma, forse, meglio dire ''jugoslavo'') rappresenta quel limite e quel confine invalicabile che divide, tutt'oggi, il mondo cristiano da quello musulmano. Le sue pagine sono testimonianza sulla carta degli umori e degli stati d'animo di quei paesi e di quella gente, sempre un po' dimenticata, messa all'angolo, a subire e tacere.

Andrić aderisce, da ragazzo, al movimento rivoluzionario nazionale ''Giovane Bosnia'', immerso nella politica che influenzerà le sorti del mondo intero. Criticato abbondantemente e severamente, è definito, da una grande fetta di critica italiana, un ''diplomatico" con tutto ciò che questa definizione gli comporterà negli anni. Non dimentichiamo che fu console e ambasciatore, ed ebbe modo di visitare numerose città europee, spesso diventando egli stesso punto di contatto tra le diverse realtà.

In Ivo Andrić troviamo tutta la riflessione e l'originalità di uno scrittore che subisce il richiamo di influenze orientali, sia dal punto di vista della narrazione che delle idee motrici, come emerge chiaramente dalle sue pagine. Penetrazione psicologica e fatalismo, sensibilità e profondità: sembrano queste le coordinate che segue il suo cuore pessimista di scrittore. Andrić, condannato dalle autorità austro-ungariche per attività antigovernative durante la Prima guerra mondiale, trascorre alcuni mesi in prigione in totale solitudine. Qui nasce 'Ex Ponto', una sorta di diario del prigioniero, essenziale per la sua crescita. Dopo quest'esperienza, infatti, non sarà più lo stesso, piegato dalle sofferenze. Modellerà, d'ora in poi, il dolore con le parole.

Leggerlo è come scavare, senza arrendersi, con le mani sporche di terriccio e sangue, il corpo affaticato e il cuore stanco perché farsi delle domande è sempre uno sforzo; guardare al passato, indagare, conoscersi, ritrovarsi nudi con le proprie angosce non può che devastare, e Andrić lo sa bene e ce lo confessa, lucidamente; in tutti quei momenti in cui l'istinto di sopravvivenza prende il sopravvento su tutto il resto, l'uomo dimentica chi è quando viene dimenticato da Dio, è assalito dai fantasmi del passato, dagli errori commessi, vinto da un sentimento di rassegnazione e animato da un senso di solidarietà vacillante, che però crolla e disarma, rendendolo inerme.

Ho in mente La sete, quando la moglie del comandante di Sokoc, pur lacerata dal senso di colpa, non dà da bere al prigioniero Lazar, il bandito più ricercato del momento e trascorre una notte a tormentarsi, impotente anche lei. Il suo è un viaggio a ritroso verso l' infanzia e gli incubi ancora la perseguitano, riducendola a un incomprensibile mutismo. Andrić descrive minuziosamente ogni dettaglio di quella violenza psicologica e lo fa in quasi tutte le sue opere, come se costringesse il lettore a non scappare da ciò che altri, più sfortunati, hanno dovuto vivere. Vi è in lui come un'ossessione senza via di fuga: ci portiamo dietro ciò che eravamo, nella condanna di dover scontare sempre un'unica pena: noi stessi. Come può un essere vivere in quella logorante attesa? Cosa è giusto fare? Come agire? Bisogna assecondare il destino o aspettare che arrivi qualcuno a salvarci tutti? Le risposte potrebbero aiutarci a comprendere quali possano essere le ragioni di un conflitto, il perché si impugni un'arma, quali forze agitino un popolo, cosa significhi uscirne sconfitti. C'è l'evidente dramma della guerra fratricida, spietata, della lotta tra simili e della prigionia come gabbia umana. Da qui la sete. Quel bisogno che resta il primo, che dà la vita e la morte, ci sveglia e addormenta, ci possiede e governa. Eternamente.

Per lungo tempo confuso da tutto ciò che accadeva intorno a me, sono giunto, nella seconda metà della mia vita, alla seguente conclusione: è vano ed è un errore cercare un senso negli avvenimenti in apparenza così importanti che si svolgono intorno a noi; bisogna, al contrario, cercarlo nei sedimenti che lasciano i secoli intorno a qualcuna delle principali leggende dell'umanità.
(Ivo Andrić, Dialogo con Goya)

Andrić è un artista che crea, vede il male nel mondo e ci vede bene, anzi benissimo. Descrive l'orrore che siamo costretti a sopportare e prolunga l'illusione in cui vogliamo credere, adottando un atteggiamento che potremmo chiamare "spirituale", ed è in questo modo che ci racconta le storie individuali di chi inciampa nella vita di un umano tra gli umani, bambino, condannato, diplomatico, solitario scrittore, uomo nella storia del suo tempo. Andrić è il suo popolo.