Le polemiche agostane sulle nomine di alcuni direttori internazionali per i musei italiani prima, quella sulla chiusura sindacale del Colosseo poi, hanno dimostrato l’estremo provincialismo italiano, soprattutto per quanto riguarda la cultura. Se per un verso soffriamo infatti di una sorta d’invidia, per quel che riescono a fare all’estero con i propri beni culturali, dall’altro ci culliamo nell’idea di una (presunta) superiorità della cultura italiana, senza accorgerci che questa è ormai quasi esclusivamente legata a ciò che siamo stati, e non più a ciò che siamo.

Il dibattito sul futuro del paese, che inevitabilmente porta al binomio cultura/turismo, alimenta peraltro un’altra delle mistificazioni di successo dalle nostre parti, e cioè quella di una economia che si basi quasi esclusivamente su questi fattori. Ed è per di più un dibattito stantio, in cui si continuano a ripetere - in un unico calderone - lamentazioni vecchie e nuove, gli orientamenti più disparati, e persino alcune buone idee, ma senza che si imbocchi mai una direzione che sia una - e che lo si faccia con coerenza e coraggio. Verrebbe quindi voglia di chiamarsene definitivamente fuori, senza sprecare tempo e parole in una inutile liturgia. Pur tuttavia, non bisogna mai smettere di pensare al futuro, e di far prevalere gramscianamente l’ottimismo della volontà sul pessimismo della ragione. Ogni idea, ogni parola, può essere un seme destinato forse a germogliare in una stagione migliore.

Non è quindi senza senso persistere nel tentativo di orientare il dibattito pubblico sul che fare dei beni culturali italiani. Facendolo possibilmente uscire dalla gabbia ideologica del confronto pubblico/privato, per affrontare piuttosto i veri nodi della questione - sempre che la si voglia affrontare in termini di prospettiva e non di contingenza, di sviluppo e non di mera creazione di reddito, di produzione e non di semplice conservazione dell’esistente. Tutto ciò comporta una diversa visione globale non solo dei beni culturali, ma dell’intero sistema paese, che non può non essere ripensato organicamente. E ci sono alcuni asset che dovrebbero assolutamente informare un modello di sviluppo che tolga la cultura dal ruolo di Cenerentola della spesa, per metterla invece tra i più importanti convitati.

Un primo asset è quello che attiene al modello di fruizione dei nostri beni culturali. In Italia si persegue ostinatamente il modello blockbuster, la concentrazione (nello spazio e nel tempo) dei flussi turistici (e più generalmente di consumo culturale). Ovviamente, è chiaro che vi sono dei poli attrattivi, di per sé catalizzatori di grandi flussi; Venezia, Firenze, il Colosseo, Pompei... Così come è noto che la gestione ipertrofica di questi poli sta incidendo pesantemente sui contesti urbani e (quindi) culturali. Da Venezia sempre più città disneyland, alla pletora di finti centurioni e venditori di paccottiglia che circondano l’area dei Fori a Roma e quella degli scavi a Pompei. E che non si pensi a questo come un indotto economico, trattandosi piuttosto di un fenomeno parassitario, che finisce con lo svilire il bene stesso di cui si nutre. E’ un’immagine folkloristica dell’Italia che ne esce fuori. Quella di un paese dal grande passato, di cui non sa più essere all’altezza, e in cui ci si acconcia a vivere da guitti tra le vestigia di ieri. Poiché invece l’Italia, a differenza di tanti altri paesi, ha una elevatissima densità di beni culturali, dovrebbe investire su un modello diffuso, in cui quei famosi poli svolgano un ruolo irradiante piuttosto che centripeto. De-concentrare il consumo culturale significa (anche) distribuire maggiormente la ricchezza economica che ne deriva. Contro un’idea sightseeing, un veloce mordi-e-fuggi che spacci per conoscenza poche fugaci visioni accompagnate da quattro informazioni in cuffia, per un’idea slowconsumption, una immersione nella bellezza che trasmetta sapere attraverso l’emozione dell’esperienza.

Altro asset è quindi quello del networking, della creazione di reti tra i soggetti coinvolti nel processo di consumo culturale, e connessi sulla base sia della prossimità territoriale che su quella della relazione storico-culturale. Networking che ovviamente non può essere una questione meramente telematica; per quanto sia un passo importante, quindi, non va confuso con il MUD, promosso dal MiBACT con l’obiettivo di aumentare le performance dei Musei Italiani in ambito digitale. La costruzione di reti territoriali e culturali deve essere innanzitutto finalizzata alla creazione di luoghi di scambio e di cooperazione, di coordinamento e progettualità comune, nel cui ambito gli strumenti di comunicazione (nonché di archiviazione) digitale sono importantissimi, ma non esaustivi, né tanto meno sostitutivi. Compito di queste reti deve piuttosto essere elaborare strategie - comunicative, informative e gestionali - capaci di favorire il decongestionamento dei flussi di consumo culturale, orientandone la distribuzione sul territorio. E quindi, anche in dialogo con il comparto dell’accoglienza e della ristorazione, per un verso, così come con la gestione dei trasporti per l’altro.

Un terzo asset è la definizione corretta del rapporto pubblico/privato. Tanto per cominciare, uscendo dal facile (quanto demagogico) schema del pubblico come sinonimo di inefficienza. Ed evitando altresì l’altro abusato (quanto poco pubblicizzato) schema del privato che lucra sul pubblico. Se vi sono (e vi sono...) problemi di efficientamento nella gestione pubblica dei beni culturali, questi dipendono innanzi tutto dalla scarsità di risorse investite. E se vi sono dei limiti, dovuti alla preparazione scientifico-culturale ma non manageriale, a questi si dovrebbe sopperire attraverso un’adeguata formazione del management pubblico (cosa in Italia del tutto inesistente). Riequilibrare il rapporto tra pubblico e privato, nell’ambito della gestione dei beni culturali, significa fondamentalmente due cose: identificare i settori in cui ha senso l’affidamento all’iniziativa privata, e favorirne opportunamente l’investimento.

Per quanto riguarda il primo punto, si dovrebbe privilegiare la logica della concessione, piuttosto che quella dell’appalto. E pertanto, si dovrebbero creare le premesse affinché sia l’impresa privata a investire, e non, al contrario, a divenire un onere per le finanze pubbliche. E’ quindi ovvio che, ad esempio, la ristorazione, il merchandising, la gestione degli shop - sempre all’interno delle strutture e/o delle aree pubbliche - regolate da un chiaro protocollo e affidate mediante gara pubblica, siano il principale terreno d’elezione per l’intervento dell’impresa privata. Mentre qualunque forma di esternalizzazione di servizi (di per sé improduttivi direttamente) dovrebbe essere limitata allo stretto necessario. Per una questione di semplice - quanto lapalissiano - buon senso, appare evidente che un’impresa appaltatrice interviene per ricavare (legittimamente) un profitto. Pertanto, se la ratio della esternalizzazione è il risparmio per le casse pubbliche, questi due elementi si sommeranno, e andranno a discapito del servizio erogato (meno personale impiegato, o meno qualificato, o meno pagato e quindi demotivato). Insomma, esattamente l’opposto di quanto si sta facendo con la Beni Culturali Spa, attraverso la quale ci si prepara ad assegnare appalti per 640 milioni di euro (quasi la metà dell’intero budget del MiBACT), tutti per servizi interni, e per nulla marginali, come la predisposizione di anagrafiche tecniche o i servizi di informazione al pubblico.

Un ulteriore asset, infine, è quello di un investimento sulle tecnologie. In questo, non dovrebbe esserci sostanzialmente autonomia periferica, ma al contrario si dovrebbe procedere con una logica unitaria, che individui gli strumenti adatti nell’ambito di una strategia complessiva di archiviazione, fruizione e comunicazione dei beni culturali. Il che, ovviamente, presuppone che tale strategia venga delineata. Fondamentalmente, la logica dovrebbe essere quella di determinare una possibilità espansiva per i beni culturali. Cioè fornire al consumo culturale gli strumenti per ampliare ed approfondire il rapporto con il patrimonio storico-artistico.

In questa prospettiva, le scelte dovrebbero orientarsi generalmente verso l’open source e l’AR (Augmented Reality), in quanto queste sono le caratteristiche potenzialmente meglio rispondenti alle esigenze delineate. Di grande importanza, inoltre, sarebbe un investimento sulla ricerca applicata. Per quanto in Italia già vi sia un comparto dell’impresa privata che lavora su queste tematiche, l’allargamento del mercato ne favorirebbe la crescita non solo economica. E quello delle tecnologie applicate ai beni culturali è uno dei settori di grande sviluppo futuro. Pensare ad esempio alla creazione di alcuni grandi poli di ricerca artistico-scientifica, e anche alla possibilità di ospitare all’interno delle strutture museali maggiori di veri e propri incubatori, che lavorino nella prospettiva di dar vita a start-up specialistiche, così come già avviene per le università.

Last but not least, sono più che mai necessarie politiche di sostegno pubblico per le nuove produzioni artistiche e culturali, perché non possiamo basarci solo e soltanto su quanto ci viene dal passato, per quanto meraviglioso sia. Anche qui, però, uscendo dalla logica predominante del clientelismo politico, dei finanziamenti a pioggia, della sostanziale dispersione delle (poche) risorse in una sorta di welfare surrettizio. Non più contributi a questo o a quello, finendo inevitabilmente per cadere nell’arbitrario e per “dopare” il mercato a discapito del merito, ma investimenti strutturali, creando spazi di produzione che siano liberamente utilizzabili da chi non si è ancora affacciato sul mercato. Tornare ad essere un luogo centrale per l’arte contemporanea mondiale, come lo siamo stati in età classica o nel Rinascimento, è uno degli elementi fondamentali perché si possa, domani, parlare di una primavera italiana.

Per ora, ci tocca l’inverno. E possiamo solo spargere qualche seme e qualche speranza.