Impossibile cogliere la dimensione primitiva di un popolo se prima non si entra fisicamente nel suo quotidiano per risalire alla sua storia e alle sue tradizioni, condividendone con lui il senso. A differenza del turista, il viaggiatore cerca di cogliere la dimensione spirituale e morale di una comunità. Per farlo ha bisogno di tempo per perdersi e lasciarsi trasportare da ciò che incontra. Viaggiare ad oltranza mi ha permesso di osservare da vicino e condividere con diverse tribù Dayak il cibo e le giornate. Di enorme aiuto, nella raccolta di dati e nella ricostruzione narrativa, anche i 48 volumi inviatimi a casa dal curatore del Sarawak Museum di Kuching, la prestigiosa istituzione che racchiude l’anima del Borneo.

Il Borneo è un’isola contraddistinta da una società multirazziale, dove la gente pratica numerosi credo religiosi che rappresentano riferimenti indispensabili della quotidianità, caratterizzata da molti riti e da diversi simboli capaci di fugare paure, superare ostacoli, creare aspettative e alimentare speranze, rappresentando un ancora di salvezza a cui aggrapparsi. Per la gente comune la religione è ricerca autentica di spiritualità e di regole morali, per chi gestisce il potere è uno strumento di conquista e di affermazione della sua superiorità sugli altri.

Qui sono praticati tutti i culti del mondo, in una sorta di “indotta” convivenza interreligiosa che rende gli abitanti di quest’isola davvero speciali e diversi tra di loro. Sono islamici, buddisti, cristiani, taoisti, confuciani, induisti, sikh, animisti; tra questi ultimi emergono i seguaci del Kaharingan, ma sono presenti anche diverse altre dottrine minori e strani culti nati dalle più disparate origini culturali. I fedeli che praticano le antiche dottrine buddiste e induiste sono più numerosi negli stati settentrionali dell’isola. Tra i cristiani ci sono cattolici, protestanti, anglicani, ortodossi, pentecostali e seguaci di diverse sette, in numero tale da non lasciar spazio agli atei indecisi, anche perché l’ateismo è perseguibile penalmente, come un reato alla stregua del comunismo. Nel Kalimantan, la parte indonesiana dell’isola, chi non crede è perseguitato politicamente e costretto a seguire una delle religioni riconosciute dalla Costituzione del 1945 che garantisce la tutela di quei culti ufficiali rivolti ad una forza superiore. Le religioni tutelano le gerarchie sociali, in contrasto con il pensiero ateo e comunista. Questa è la ragione per cui gli atei e i comunisti vengono qui perseguitati. A conferma Apari, del villaggio di Tanjung Isuy (Lago Jempang), mi racconta: “Durante il periodo della konfrontasi [1] il governo ha fatto distruggere molte lamin, case comunitarie o longhouse, con la motivazione che erano abitazioni di matrice comunista”. Come dovunque, anche nella foresta si vive il comune denominatore di tutti i popoli, il viaggio eterno dell’Umanità: da un lato affermare il potere e dall’altro affrancarsi dal potere.

Nonostante il clima di tensione che mina la convivenza tra gruppi di religioni diverse, in generale nel Borneo, si può notare come la pace, la tolleranza, l’accettazione delle idee altrui non siano sempre un’utopia. L’islamismo sunnita, religione di Stato in Malaysia e Indonesia, è radicato lungo le coste e il corso inferiore dei fiumi, il cristianesimo ha le sue vaste roccaforti presso le popolazioni Dayak, in particolare nella parte centrale dell’isola. A Tubau (Sarawak), capolinea dei battelli sul fiume Kemena, il titolare cinese di un buio ed umido toko (negozio) ricolmo di prodotti dagli odori strani (tabacchi da masticare, spezie, radici medicinali, biscotti, munizioni e altro), semplifica: “I Dayak hanno scelto di diventare cristiani e non musulmani per il semplice fatto che il Corano proibiva loro di mangiare carne di maiale (fagocero), principale alimento di questo popolo”.

Per i missionari cristiani il Borneo rappresenta tuttora una terra di conquista con molti seguaci. All’interno di ogni singola corrente esistono però toni ed elementi religiosi diversi, tipici della regione e permeati dalle antiche tradizioni dell’Adat (v. di seguito). Nonostante le missioni di ogni ordine si contendano tenacemente l’influenza territoriale, di villaggio in villaggio, proprio nei Dayak rimane forte il richiamo verso l’animismo, religione primitiva di cui subisco il fascino, tanto da recepire con grande interesse e annotare atmosfere e suggestioni raccolte dagli stessi autoctoni.

La religione Dayak

L’animismo è la religione di una minoranza etnica, in prevalenza Dayak, che si basa sul culto pagano politeista e sulla certezza dell’immortalità dell’anima, principio vitale insito in ogni essere e cosa dell’Universo. Più che di una religione sola, si tratta di un insieme di credenze popolari e di pratiche collettive sopravvissute alle varie ondate di conversione e pertanto fedeli agli usi, ai riti o alla visione dell’aldilà tipica degli antenati. I Dayak da generazioni venerano le grandi forze della natura, celebrano le stagioni e i frutti della Madre Terra, mostrano riverenza e rispetto nei riguardi del loro Pantheon di dei e spesso mescolano con noncuranza ciò che appartiene alla vita di tutti i giorni con ciò che fa indubbiamente parte del soprannaturale. Se vagate soli nella foresta forse siete semplicemente uno spirito errante; se si scatena una tempesta è Belare, il dio del Tuono, che cavalca le nuvole lanciando fulmini e saette; se si progetta una battuta di caccia, niente di più corretto che interpretare il volo propiziatorio degli uccelli. Lungi dall’avere un unico dio, onnipresente e onnipotente, i Dayak sembrano possedere un elenco infinito di divinità; cielo, terra, acqua e foreste sono abitate da decine di eteree presenze, spettri inoffensivi o litigiosi ed esseri soprannaturali da consultare prima di costruire una casa, intraprendere un viaggio, trovare moglie o, in passato, sferrare un attacco al nemico. Un anziano della tribù dei Lun Bawang guardando le punte gemelle del monte Lawi (2045 m), nella regione del Krayan, mi bisbiglia: “Toccare il cielo è un’avventura dello spirito”. I loro dialoghi sono sempre attenti all’etereo, fino a sconfinare nell’eccessivo stato paranoico dei nomadi e candidi Penan che, tra loro, parlano sottovoce e con segni convenzionali per non fare capire agli spiriti cattivi, sempre in ascolto, quali siano le proprie intenzioni.

In questo contesto, amuleti e talismani si sprecano, maschere e raffigurazioni di coccodrilli, buceri o cani sono ottimi portafortuna, strani feticci di legno intagliato non mancano all’entrata delle longhouse per scoraggiare gli spiriti malvagi, spesso lunatici e capricciosi. Posti ai piedi delle scale di casa ma anche all’entrata dei villaggi, s’innalzano lunghi pali di bamboo o di legno chiamati belawang: si tratta di simboli fallici, un tempo rallegrati da “teste fresche di taglio” portatrici di fortuna e di vittoria. Perso l’antico smalto, i belawang oggi sono corredati da uova marce, carcasse di pollo, piume e altre cianfrusaglie a tema. Al primo posto nella graduatoria degli amuleti imperano incontrastati i feticci della fertilità, perché nella tribù la nascita di un bambino è sempre accolta con gioia, mentre la sterilità è considerata un male o una punizione, contraria alla vita e all’equilibrio dell’intera comunità. I simboli di protezione più in auge sono lucertole, varani e serpenti; in tutti i poderi non mancano sacrifici di bufali o animali da cortile, sangue che scorre e cerimonie fastose per ringraziare e onorare gli dei.

L’Adat

L’animismo, religione mito, magia, illusione collettiva, un tempo era più strettamente legato alle attività tradizionali della tribù e la sua storia risultava inseparabile da quella delle istituzioni sociali e politiche. La parola Adat significava proprio questo. Adat era la legge consuetudinaria, per cui si riconosceva l’esistenza di un perfetto ordine cosmico divino e si era profondamente consapevoli della necessità di agire e vivere in armonia con questo equilibrio naturale per non incorrere nella malattia, nella sfortuna o nell’errore. Ogni creatura, ogni cosa, pianta o fiume che fosse, ogni fenomeno, ogni essere vivente, secondo gli antichi abitanti dell’isola, aveva un ordine preciso nell’Universo, un motivo d’essere, uno scopo, utili a rendere perfetto e armonioso il tutto. Un turbamento, per la legge di causa-effetto, provocherà prima o poi uno squilibrio.

Anche in questo campo gli stregoni dei villaggi svolgevano un ruolo fondamentale cercando di “raddrizzare” la situazione di chi aveva sbagliato ed era inevitabilmente caduto nella malasorte, anche allargando la scena all’intero villaggio, che poteva essersi allontanato dallo spirito dell’Adat. In questo caso le cerimonie erano molto più elaborate, solo i rappresentanti delle classi aristocratiche presiedevano al “summit” dei diversi Bali Dayung, divinità chiamate ad analizzare la trasgressione dell’Adat, la legge non scritta dei Dayak. In seguito le diverse ondate migratorie portarono nel tempo commercianti cinesi, indù e musulmani, missionari e militari, inglesi e olandesi; un sistema seppure elastico come quello dell’Adat non poteva incorporare un mare così diverso senza frammentarsi.

Ad esempio, in una società stratificata come quella del Borneo soltanto agli appartenenti alle classi più elevate della gerarchia sociale spettava il diritto di adornarsi con particolari monili, usare le piume di bucero o altre parti del suo corpo o farsi tatuare determinati simboli. Un loro uso inadeguato poteva portare sfortuna all’intera comunità e alterare, violandolo, l’ordine prestabilito. E come comportarsi allora se un musulmano fervente adoratore d’Allah infrangeva l’Adat e l’intera armonia cosmica? Oppure, quale cristiano colpevole avrebbe pagato il suo debito alle leggi dell’Adat se non riteneva nemmeno d’aver commesso un errore? All’inizio si pensò che bastava fare posto ai nuovi venuti o convertiti semplicemente proseguendo per la propria strada e lasciando a ognuno il compito di rispettare le leggi della propria religione, ma il progetto si rivelò più difficile del previsto. Una comunità non poteva controllare i comportamenti più o meno adeguati dell’altro e il cosmo si riempiva così di gospel, preghiere cristiane, madonne con bambino e abluzioni musulmane con rischi per l’equilibrio “interplanetario”. La confusione entrò ben presto nei villaggi del Borneo e chi un tempo era unito da un comune denominatore e da un profondo rispetto per i disegni dell’Universo si ritrovò diviso dai nuovi usi, dalle religioni e dalla miriade di nuovi dettami.

Di pari passo mutò anche il rapporto indigeno con la Natura, prima sfruttata per la sopravvivenza, poi per questioni economiche e religiose, in seguito rispettata e vissuta in una specie di simbiosi e infine vista dall’esterno con maggiore distacco e spirito progressista. Il sole e la luna, la pioggia e il vento non erano più manifestazioni divine ma semplici fenomeni naturali: se il raccolto era buono non tutto il merito andava agli dei e se tagliare il bosco portava denaro e benessere, pazienza per gli spiriti che l’abitavano. In alcune regioni il concetto di Adat cambiò in modo definitivo, quando lo Stato volle istituire un sistema di leggi precise, cercando di far entrare in schemi e codici ciò che era mutevole e aperto: impose l’idea che Adat e organizzazione sociale potevano essere separati. Fino ad allora, offese, infrazioni, rivolte dell’ordine sociale e punizioni erano state considerate come nocive per il benessere e l’equilibrio cosmico, che andava ripristinato cercando una riconciliazione con la comunità e con gli dei, a volte pagando tutti per questo.

Con l’avvento della legge scritta, l’Adat perse la propria funzione e il senso di coscienza sociale si affievolì. Le colpe ricaddero sul singolo colpevole e i rei furono puniti dallo Stato, perseguibili come individui, che infrangevano le regole e il sistema piuttosto che esseri umani colpevoli di turbare e alterare l’armonia del mondo; si curarono i sintomi e non più le cause e si tentò di ridurre in cenere le millenarie credenze e convenzioni dell’Adat. Fortunatamente, l’intricata mitologia Dayak, le feste e gli spiriti della giungla, e soprattutto i ritmi, le regole e l’ordine sociale delle tribù Dayak del Borneo centrale sono tuttora dettate dall’Adat. Oggi pratica l’animismo totale solo lo 0.5% della popolazione, ma le credenze degli antenati e le leggi dell’Adat convivono normalmente anche nelle comunità convertite a religioni imposte dall’esterno. Il mondo esoterico è profondamente radicato nella cultura Dayak e ne condiziona ampiamente il quotidiano; rimangono al loro posto totem, feticci, riti e figure-chiave come quella del Paran Bio o Pengulu, “re” dei capi-villaggio, capo dei capi, capace di sedare le liti e determinare le punizioni corrette in base alle leggi tradizionali.

“I Pengulu godono di maggiore autorevolezza dei rappresentati delle leggi governative”. Così afferma Mr. Alexander della Sandakan Adventures Tours (Sabah) e al riguardo precisa: “Era troppo complicato per un giudice valutare regole così in apparenza astruse .. Come poteva il governo tener conto nei giudizi o accettare, ad esempio, che anche il riso ha un’anima?. Ecco che la figura mediatrice del Pengulu diventa insostituibile”.

Nel villaggio di Long Bungan sul fiume Belaga (Sarawak), abitato dalla tribù monarchica dei Kenyah, con l’amico Marcello abbiamo avuto la fortuna “sfacciata” di essere sul posto proprio durante una delle rare visite del Pengulu, considerato al pari di un sovrano. Una figura di grande rilievo che amministra e filtra le dispute tribali di un vasto territorio da parte del governo centrale malese. Dalla veranda in cima alla longhouse assistiamo al suo arrivo con la scorta al seguito, nella veranda comunitaria c’è un enorme fermento per i preparativi di quello che ci appare come un grande evento. Nell’ora di cena, appena calato il sole, tutti si siedono in una sequela di cerchi per l’intera veranda lunga circa 200 metri, ricoperta di stuoie con sopra ciotole e tegamini ricolmi di cibi e di bevande alcoliche. Il tuak ed il borak sono due tipi di vino lattiginoso dal sapore aspro ed amarognolo ricavato dal riso, dalla palma, dal sago o dal miglio, che i Dayak lasciano fermentare in antiche giare cinesi di ceramica per un mese, prima di trasformarlo nel protagonista principale delle loro feste canore.

I Dayak, di entrambi i sessi, hanno la reputazione di essere forti bevitori e visite o feste del raccolto a parte, ogni occasione è buona per liberare l’anima con cori di canti ancestrali provenienti dalla notte dei tempi, inimitabili! Nel momento top della serata con Marcello abbiamo provato ad unirci ai loro singolari acuti col risultato di essere freddati da sguardi truci e non abbiamo più osato ripeterci. Giriamo da un cerchio all’altro, quelli più prossimi al capo sono di rango più elevato, tutti ci passano gusci di cocco ripieni di borak. Beviamo anche in compagnia del sovrano, che con noi è gentile ma profondamente distaccato. Si avverte di essere in compagnia di “gente vitale” che emana una forte energia, custode di un radicato carattere aristocratico. Festa grande fino a notte fonda; colossali ubriacature e soprattutto i nobili vocalizzi che dal centro della foresta pluviale si levano verso il cielo e che, ripetuti di serata in serata, ripagano abbondantemente delle fatiche del viaggio.

[1] Il termine konfrontasi fu coniato dal presidente indonesiano Sukarno in occasione della campagna anti-malaysiana, inaspritasi nel dicembre del 1962 con la fallita ribellione nel Brunei, sostenuta da Jakarta. La parola racchiudeva il sogno nazionalistico del presidente di annettere la Malesia, Singapore, le Filippine, l’intera isola del Borneo e della Papua Nuova Guinea, alla grande Indonesia. Il conflitto, che costò 150 morti agli alleati e circa 600 agli indonesiani, ebbe termine con l’accordo di pace firmato a Bangkok l’11 agosto 1966.

Continua il 17 Ottobre...