Non so che è successo quel giorno. Roma aveva un cielo azzurro scuro palpitante e a primo istinto sembrava tutto così normale. Nulla di sospettoso e chiarificatore bussava alla porta del tuo sguardo perso, nulla sembrava muoversi in maniera decisiva né si sarebbe permesso di farlo. L’autunno era calmo, non parlava, e nel suo languore aspettava il freddo regalando pomeriggi poco interpretabili, cinici fino al crepuscolo che ne avrebbe ammutolito anche i sottotitoli. Roma quasi nereggiava fra le sue luci fioche e soffuse nell’atmosfera di ambivalenza che le apparteneva, nello stato di antichità diffusa e di progresso lieve che la disegnava come una città magica sempre in crisi nevrotica: tra il suo paradosso e quella delicatezza appariva tenera e insolente a non finire, mai a posto con la testa, ingannatrice di se stessa. Non so che è successo quel giorno. Ti è bastato scendere delle scalette di marmo e cadere nei soliti e semplici gesti quotidiani, accenderti una sigaretta e far finta di divagare, riflettere guardando gli alberi e le siepi squadrate al millimetro, girarti verso una voce di donna dolce e devastante e cercarla, cercare da quale pianeta di corpo fosse provenuta, per accorgerti che la tua idea di te aveva preso casa in lei. Se l’era presa quel viso tramortito dai contorni che s’esprimevano in versi, concavi e rotondeggianti, maledettamente femminili, segni di una bellezza volgare ma elegante al punto giusto. Quel naso dalla metrica perfetta si coronava sopra un sorriso quasi inadatto, difficile per quanto era poetica quella malinconia così definita da trasudare ambizione. Testimone di qualcosa di divino, di una religione dalle labbra in prosa che ne significavano il testo sacro, guardavi alla legatura dei suoi capelli castano dorati come l’incosciente guarda alla sua morte preferita. Amore, metafisica, in parte recitazione: stava nel gioco romanzare, decifrarsi, toccarsi dentro, leggersi e poi richiudersi, ridere sui dettagli o magari era talento… Non so che è successo quel giorno. Roma sapeva d’amaro, d’abitudine e di nuvole profumate, destinata a rimanere così, in un cielo azzurro scuro palpitante.

È come salire su un treno per il semplice fatto che si è deciso di farlo. Qui incontrerai fantasmi travestiti da sogni irresistibili, ossessioni che ti tormenteranno e che ti renderanno inerme, a volte tanto impaziente da poter dire di non aver incontrato nessuno. Ma questa è la pena della vita: vivere fra una domanda e l’altra, bisogno dopo bisogno, rischiare di parlare e rimanere senza risposte.

Così eri:
anche sul ciglio del crepaccio
dolcezza e orrore
in una sola musica.
(Eugenio Montale)