Nella nostra era la tecnologia è diventata insieme diffusa e invasiva rispetto al nostro corpo, tanto che Longo (2001) parla di “corpo esteso” e “corpo invaso”; infatti, mentre le macchine tradizionali erano ben individuate ed esterne al corpo dell’uomo, ora le nuove tecnologie non solo si espandono intorno al corpo, modificandolo e prolungandolo, ma s’insinuano al suo interno, interagendo con il funzionamento dell’organismo, potenziandone, modificandone o annullandone facoltà. Tra pochi decenni la vita umana e parti artefatte conviventi potranno, forse, mescolarsi generando nuove forme di vita diversamente evolute; le loro molecole potranno avere un metabolismo non biochimico, ma informazionale, essendo in grado di trasformare energia in informazione in una cibersimbiosi, aprendo così le porte all’estensione della cosiddetta semiosi evolutiva in una cibersemiosi (Sebeok 1998, 179).

Purtuttavia, questa compenetrazione uomo-macchina, che sembrerebbe preludere alla nascita di un vero e proprio “ciborg, un simbionte totale” (Longo 2001, 20) – già Licklider negli anni sessanta del novecento parlava di simbiosi uomo-computer [1] – “non solo cognitivo, riporta la nostra attenzione, dopo secoli di preponderanza dell’aspetto esclusivamente teoretico della conoscenza nella tradizione occidentale, verso il corpo di merleau-pontiana memoria, con la sua complessità senso-motoria, quale “teca ancestrale, […] contenitore primo e principale dell’intelligenza. […] Per questa strada, si ha una conferma inattesa del profondo legame che c’è tra conoscere e agire, anzi della loro inseparabilità: la cogni-zione attiva o l’azione cognitiva sono due endiadi equivalenti” (Longo 2001, 20-21).

Mi pare che questa sia veramente una grande conquista. Se per alcuni le tecnologie digitali rappresentano il lato “buono” della tecnologia, Hans Jonas non salva dalla tendenza alla catastrofe neanche una società, come quella odierna, che può avvalersi delle grandi potenzialità offerte dalla diffusione delle tecnologie digitali:

“Dal punto di vista sia teorico che pratico l’elettronica rappresenta in generale un nuovo stadio della rivoluzione tecnico-scientifica. In paragone alla sottigliezza della sua teoria e alla raffinatezza delle sue apparecchiature tutto ciò che la precede appare quasi rozzo e per così dire «naturale». […] La tecnica elettronica crea di fatto un regno di oggetti che non imitano nulla e ai quali la pura invenzione ne aggiunge via via di nuovi. E non meno inventati sono gli scopi a cui servono. […] La tecnica delle comunicazioni risponde ai bisogni di informazione e di controllo che sono creati unicamente dalla civiltà stessa, solo grazie alla quale una tale tecnologia divenne possibile e per la quale essa diviene poi indispensabile. Il nuovo tipo di mezzi produce ininterrottamente scopi non meno nuovi, ed entrambi divengono tanto necessari per il funzionamento della civiltà che hanno creato quanto inutili sarebbero stati per qualsiasi civiltà precedente. Ma con questo paradosso intrinseco per cui proprio questa civiltà minaccia il suo creatore di farlo diventare «antiquato», la crescente automatizzazione (un trionfo dell’elettronica) potrebbe ad esempio scacciare l’uomo dai posti di lavoro, nei quali egli un tempo dimostrava il suo essere uomo. E con l’ulteriore minaccia che il suo sovraffaticare la natura sulla terra possa raggiungere un punto catastrofico (Jonas 1997, 25-26).

Anche Longo, in linea con Jonas sostiene:

“L’informatica esalta un fenomeno avvertito da tempo, cioè che la velocità con cui si sviluppa la tecnica e si diffondono i suoi effetti è superiore alla velocità con cui progredisce la scienza, intesa come fase preliminare e progettuale della prima. […] Come piccoli golem [2], i nostri dispositivi c’inquietano per la loro autonomia, ma, almeno per il momento, come il Golem possono essere fermati: possiamo sempre staccare la spina. Per farlo, occorre tuttavia volerlo, e anche la volontà ha bisogno di un certo tempo per formarsi, organizzarsi e manifestarsi” (Longo 1998, 8-9).

È evidente, dunque, che l’umanità debba ricominciare a riflettere sulla propria vita, riprendendo la consapevolezza del suo essere al mondo e essere con gli altri e degli effetti generati dal proprio agire nelle molteplici interrelazioni che si creano continuamente nell’ecosfera. Potrebbe aver ragione Jonas, il quale sostiene che affinché si acquisisca questa consapevolezza possa diventare necessario ricorrere a

“un’euristica della paura che non si limiti a scoprire e a raffigurare il nuovo oggetto, ma renda noto a se stesso il particolare interesse etico che ne risulta evocato. […] la teoria etica ha bisogno dell’idea del male come di quella del bene, tanto più poi se quest’ultimo ha perso evidenza al nostro sguardo e deve ritrovare il suo profilo mediante l’anticipazione di un nuovo male incombente” (Jonas 2002, 285-286).

Non bisogna di certo mai dimenticare che vivere è vivere solo se si agisce consapevolmente, con un’assunzione di responsabilità, pena la perdita della stessa nostra autonomia e dunque della nostra libertà. Ancora con Jonas:

“Per amore dell’autonomia umana, della dignità, la quale richiede che noi possediamo noi stessi e non ci facciamo possedere dalle nostre macchine, dobbiamo porre la corsa tecnologica sotto controllo extratecnologico” (Jonas 1997, 36).

Siamo noi stessi a produrre le macchine, che estendono e invadono allo stesso tempo il nostro stesso corpo, quella corporeità che ci pone in azione vitale creando il mondo che noi abitiamo. Eppure, gli scenari del futuro potranno darsi in modo imprevedibile, caricandoci di sempre maggiore responsabilità, per noi stessi e per l’Altro da noi.

“La tecnica e le sue opere si diffondono per tutto il globo terrestre; è possibile che i loro effetti cumulativi si estendano su innumerevoli generazioni future. Con quello che facciamo qui, ora, e per lo più con lo sguardo rivolto a noi stessi, influenziamo in modo massiccio la vita di milioni di uomini di altri luoghi e ancora a venire, che nella questione non hanno avuto voce in capitolo. Mettiamo ipoteche sulla vita futura per vantaggi e bisogni presenti e a breve termine, e a questo riguardo per lo più per bisogni creati da noi stessi. […] Il punto saliente è costituito dal fatto che l’irrompere di dimensioni lontane, future, globali nelle nostre decisioni quotidiane, pratico-terrene, costituisce un novum etico, di cui la tecnica ci ha fatto carico; e la categoria etica che viene chiamata principalmente in causa da questo nuovo dato di fatto si chiama: responsabilità.” (Jonas 1997, 30-31).

Anche Neil Gershenfeld, direttore del “Physycs and Media Group” e condirettore del consorzio di ricerca “Thinks That Think” del Massachusetts Institute of Technology, la punta avanzata della ricerca mondiale, sembra continuare il discorso, dicendo:

“A meno che non si prenda seriamente questa sfida, il digitale rimarrà irto di barriere. Un computer con una tastiera e un mouse può essere usato da una sola persona per volta, può aiutarvi a comunicare con qualcuno che si trova dall’altra parte del mondo ma non con una persona che sta nella vostra stessa stanza. I computer più economici costano ancora come una macchina usata ed è molto più difficile capire come farli funzionare, dividendo così la società in una classe superiore ricca d’informazione e una classe inferiore che ne è priva. Un lettore per compact disc riproduce fedelmente le creazioni artistiche di un gruppo molto ristretto di persone e trasforma chiunque altro in un consumatore passivo. Noi viviamo in un mondo a tre dimensioni, ma gli schermi e le stampanti limitano l’informazione a una superficie bidimensionale” (Gershenfeld 1999, 12).

Il ragionamento di Gershenfeld assume poi, però, un andamento opposto, nel valutare gli aspetti positivi dell’interazione mondo-computer. Precisa egli, infatti:

“L’invisibilità è la missione sinora ignorata dell’informatica. La tecnologia dell’informazione si trova in un curioso stadio evolutivo, nel quale è molto efficace nel comunicare le proprie necessità e quelle di altre persone, ma non è in grado di anticipare le vostre. Da dove ci troviamo abbiamo due possibilità: staccare la spina e tornare a una società agricola – un’opzione intrigante ma poco realistica – o portare la tecnologia talmente vicina alla gente da farla scomparire. […] Ciò di cui ci sarebbe bisogno è una migliore integrazione tra i computer e il resto del mondo” (Gershenfeld 1999, 15).

Ecco, addirittura, auspicata una nuova realtà, proprio quella tanto temuta da alcuni:

“Convivendo sempre più con le macchine, siamo destinati a essere frustrati dalle nostre stesse creature se queste mancheranno delle capacità fondamentali che noi diamo per scontate: avere un’identità, sapere qualcosa dell’ambiente circostante ed essere in grado di comunicare” (Gershenfeld 1999, 16).

Solo, dunque, generando macchine emulanti l’umano, gli umani potranno trovarsi sul loro stesso piano e non essere prevaricati da esse. Mai più, da ora in poi, saranno in grado di sciogliere le catene che li legano ai loro stessi prodotti digitali, che minano ormai e continueranno inesorabilmente a minare le radici della nostra antica libertà naturale. O possiamo avere un’altra prospettiva?

Autopoiesi - Άυτοποιέσις

Note:

[1] Da http://www.memex.org/licklider.pdf, J.C.R. Licklider, August 7, 1990 - Man-Computer Symbiosis. In Memoriam: J. C. R. Licklider (1915-1990), Systems Research Center, 130 Lytton Avenue, Palo Alto, California 94301.
[2] “Golem è parola ebraica che significa massa informe. Secondo la leggenda, nel 1580 il rabbino di Praga Leone ben Bezabel foggiò con l’argilla una gigantesca figura umana, che chiamò appunto Golem. La creatura, che poteva essere animata dalla parola emet (verità) tracciata sulla fronte, doveva difendere gli Ebrei dalle persecuzioni. Se minacciava di ribellarsi o di diventare troppo violento, il Golem veniva riaddormentato cancellando la prima lettera di emet per trasformarla in met (morte)” (Longo 1998).

Bibliografia

Anders Günther, 2003a – L’uomo è antiquato. 1. Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale. Bollati Boringhieri Editore, Torino.
Gershenfeld Neil, 1999 – Quando le cose iniziano a pensare. Garzanti, Cernusco s/N (Milano).
Jonas Hans, 1997 – Tecnica, medicina ed etica. Prassi del principio responsabilità. Einaudi, Torino.
Jonas Hans, 2002 – Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica. Einaudi, Torino.
Longo Giuseppe O., 1998 – Il nuovo Golem. Come il computer cambia la nostra cultura. Editori Laterza, Bari.
Longo Giuseppe O., 2001 – Homo technologicus. Meltemi Editore, Roma.
Sebeok Thomas A. 1998 – A sign is just a sign. La semiotica globale. Spirali, Milano.