La comunicazione non produce comprensione. L’informazione, se è ben trasmessa e compresa, produce intellegibilità, prima condizione necessaria ma non sufficiente alla comprensione. Vi sono due livelli di comprensione: quello della comprensione intellettuale o oggettiva e quello della comprensione umana intersoggettiva. Comprendere significa intellettualmente apprendere insieme, com-prehendere, cogliere insieme (il testo e il suo contesto, le parti e il tutto, il molteplice e l’uno). La comprensione intellettuale passa attraverso l’intellegibilità e la spiegazione. Spiegare è considerare come oggetto ciò che si deve conoscere e applicarvi tutti i mezzi oggettivi di conoscenza. (…) La comprensione umana va oltre la spiegazione. La spiegazione è sufficiente per la comprensione intellettuale o oggettiva delle cose astratte o materiali. È insufficiente per la comprensione umana. Questa comporta una conoscenza da soggetto a soggetto.

(Edgar Morin, I sette saperi necessari all’educazione del futuro)

Due modalità di conoscenza

È fondamentale compiere una distinzione: quella tra due modalità di conoscenza che, se non chiaramente comprese, possono facilmente confondersi. Edgar Morin, tra i primi a riconoscerne la portata, distingue tra comprensione intellettuale o oggettiva e comprensione umana intersoggettiva.

La prima è una conoscenza da soggetto a oggetto. È il tipo di sapere che sviluppiamo quando osserviamo, analizziamo, misuriamo qualcosa che poniamo fuori da noi. Questo tipo di conoscenza cerca regolarità, cerca di ridurre l’ambiguità, mira alla neutralità e alla verificabilità. È la conoscenza delle scienze fisico-naturali, delle tecnologie, delle macchine. Quando interagiamo con una macchina, restiamo all’interno di questo paradigma: la macchina, per quanto sofisticata, non è altro che un oggetto che rielabora dati. Può imitare, ma non comprendere. Può rispondere, ma non partecipare. Non c’è un “sé” dietro la sua risposta.

La seconda modalità, invece, è una conoscenza da soggetto a soggetto: ciò che Morin chiama “comprensione umana”. È il tipo di sapere che si genera nella relazione tra esseri umani. Non si tratta di un semplice scambio di informazioni, ma di una trasformazione reciproca. Comprendere un altro essere umano non significa solo conoscerlo, ma riconoscerlo. Significa percepire la sua interiorità, intuire il suo punto di vista, lasciarsi modificare dalla sua presenza. Significa, in definitiva, accettare l’alterità senza ridurla a ciò che già conosciamo.

Come ci ricorda Edgar Morin1:

Se vedo un bambino in lacrime, mi accingo a comprenderlo, non misurando il grado di salinità delle sue lacrime, ma ritrovando in me i miei sconforti infantili, identificandolo con me e identificandomi con lui. L’altro non è soltanto percepito oggettivamente, è percepito come un altro soggetto con il quale ci si identifica e che viene identificato con sé, un ego alter che diviene alter ego. Comprendere comporta necessariamente un processo di empatia, di identificazione e di proiezione. Sempre intersoggettiva, la comprensione richiede apertura, simpatia, generosità.

Questa comprensione è fragile, ambigua, mai definitiva. Ma è proprio in questa incertezza che si apre lo spazio per l’incontro autentico. La comprensione intersoggettiva è il cuore della relazione educativa, dell’amicizia, dell’amore. È ciò che consente all’apprendimento di essere trasformativo, e non solo cumulativo.

Quando interagiamo con GenAI, ci muoviamo dentro un regime oggettivante: stiamo usando uno strumento, non incontrando un soggetto. Eppure, il modo in cui ci poniamo — il tono, le emozioni, le attese — rischiamo sia lo stesso che useremmo con un interlocutore umano. È qui che nasce l’illusione: applichiamo alla macchina una dinamica relazionale che appartiene solo all’incontro tra soggetti.

Più l’illusione è credibile, più si rafforza il rischio di confusione: cominciamo a confondere la conoscenza oggettiva con la comprensione, l’efficienza dell’elaborazione con la profondità del riconoscimento. Questo rischio si manifesta con particolare intensità nelle nostre relazioni con l’Intelligenza Artificiale Generativa.

Conversare con un oggetto compiacente come GenAI è rassicurante: non ci contraddice, non ci giudica, non ci interpella in profondità. Risponde in modo plausibile, fluido, persino brillante. Ma non ci pone mai davvero in questione. Non ci mette in crisi. E proprio per questo, non ci costringe a cambiare.

La relazione con un essere umano, al contrario, è un campo instabile, vivo, rischioso. Un altro essere umano può sorprenderci, interromperci, metterci in difficoltà. Può porci domande che ci mettono in crisi, mostrarci i nostri errori, interrompere il flusso prevedibile della comunicazione. Ma può anche sorprenderci, ispirarci, farci cambiare punto di vista. Ogni vera relazione umana implica attrito, ambivalenza, imprevedibilità. Ma implica anche riconoscimento, fiducia, apertura reciproca. Nessuna macchina può restituire questa qualità dell’incontro.

Una collocazione umanistica del comprendere

Se non siamo capaci di collocare correttamente la relazione con la macchina all’interno di un quadro interpretativo consapevole, rischiamo di perdere qualcosa di essenziale. È necessario dotarsi di una cornice che ci permetta di non confondere la simulazione con la realtà, l’efficienza con il significato, la generazione linguistica con l’incontro tra soggetti.

Questa cornice, oggi più che mai, deve essere umanistica. Non nel senso di un rifiuto della tecnologia, ma come capacità di mantenere al centro la domanda su cosa significhi essere umani. Una domanda che riguarda la nostra capacità di pensare, di sentire, di apprendere nella relazione. Una domanda che non può essere demandata agli algoritmi.

Integrare una prospettiva umanistica nei percorsi di formazione, nelle scelte progettuali, nei processi organizzativi significa dotarsi di strumenti interpretativi per non essere trascinati – inconsapevolmente - dentro logiche performative, predittive, disincarnate. Significa valorizzare la dimensione relazionale della conoscenza, e riconoscere che la nostra intelligenza non si sviluppa nel vuoto, ma attraverso lo scambio continuo con altri esseri umani, con i contesti, con la storia, con la natura.

Dialogare con un’Intelligenza Artificiale ci richiede certamente nuove competenze: tecniche, critiche, linguistiche. Ma ci richiede anche, e forse soprattutto, di non smarrire le competenze antiche. Quelle che ci permettono di riconoscere un volto, ascoltare una pausa, accogliere un’emozione. Quelle che ci fanno sostare nel dubbio, resistere alla tentazione della risposta immediata, coltivare la domanda.

Capire come apprendiamo in questa nuova forma di interazione significa tornare a osservare con attenzione ciò che accade dentro e fuori di noi quando comunichiamo: le emozioni che ci attraversano, le intenzioni che ci guidano, i cambiamenti impercettibili che trasformano una frase in una comprensione condivisa.

Nel tempo che si apre davanti a noi, non si tratta solo di addestrare le macchine. Si tratta, ancora e sempre, di continuare a coltivare ciò che resta irriducibilmente umano: il desiderio di comprendere, la capacità di incontrare l’altro, la consapevolezza della propria trasformazione attraverso la relazione.

Serve un’educazione capace di integrare il sapere tecnico-scientifico con una riflessione più ampia: culturale, etica, relazionale. Non per rifiutare le macchine, ma per continuare a distinguere. Per non confondere l’utile con il vero, il performante con il significativo. Perché se perdiamo il senso della relazione nella conoscenza, rischiamo anche di perdere la relazione come forma della nostra intelligenza. Siamo intelligenti perché siamo in relazione. Perché apprendiamo attraverso l’altro, nel tempo, nello spazio, dentro contesti mutevoli e concreti.

Come ci ricorda Martha Nussbaum2:

Se non insistiamo sul valore fondamentale delle lettere e delle arti, queste saranno accantonate, perché non producono denaro. Ma esse servono a qualcosa di ben più prezioso, servono cioè a costruire un mondo degno di essere vissuto, con persone che siano in grado di vedere gli altri esseri umani come persone a tutto tondo, con pensieri e sentimenti propri che meritano rispetto e considerazione, e con nazioni che siano in grado di vincere la paura e il sospetto a favore del confronto simpatetico e improntato alla ragione.

Note

1 Edgar Morin, I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Raffaello Cortina Editore 2001.
2 Martha C. Nussbaum, Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, Il Mulino 2011.