Sei stesa sul pavimento, la testa appoggiata sulle gambe di tua sorella, indossi jeans strappati e una maglietta nera. Hai tredici anni, la frangetta, i capelli lunghi, mossi. Sei piatta come una tavola da surf. Pesi quarantacinque chilogrammi. Sei bianca come un cadavere. Hai sopracciglia folte. Tua sorella toglie il tappo al kajal, ti dice di chiudere gli occhi. Senti il tratto sicuro sulla palpebra. “Sarai bellissima!” ti dice. La luce del sole trema come un ricordo nel tuo occhio chiuso. Sorridi, coi tuoi canini pronunciati che non nascondi più dietro la mano, “Non penso proprio” dici, mentre ti fidi del peso delle sue dita.

Non hai mai amato le feste, non hai mai amato le situazioni affollate, ti piace stare da sola, giocare, inventare. Ti piace essere marginale, nello spazio ampissimo che c'è intorno all'essere qualcuno. Ma tua sorella ha insistito, il tuo migliore amico ha insistito, e allora ti lasci truccare, ti lasci aiutare nello scegliere il vestito, te lo infili dalla testa con un gesto rapido, indossi le scarpe con un movimento netto del piede, e sei pronta. Passa a prenderti lui, siete cresciuti insieme, abita sopra la tua testa. Lo hai sentito cadere molte volte, lo hai sentito correre, lo hai sentito stare immobile, lo hai sentito fare piano per non svegliare nessuno. Avete parlato per ore con i walkie-talkie, riso per le cose più stupide, fatto i compiti, mangiato biscotti. Gran parte della tua vita è parte della sua. Arriva in perfetto orario, con la sua camicia e i pantaloni appena stirati. Lo prendi in giro, gli dici che sembra suo padre, che gli manca la ventiquattrore, e ridi e ti sposti i capelli, mentre gli voli accanto e lo tiri giù per le scale, perché non vedi l'ora di arrivare alla festa perché non vedi l'ora di andare via. Camminate per un tragitto molto breve, suonate un citofono, salite le scale.

Superate il corridoio, il salone grande con le sedie tutte intorno, il tavolo con le tovaglie di carta, le bibite e i panini, mille cose da stuzzicare, ed è lì che subito ti fiondi, perché hai fame sempre, perennemente, non sei mai sazia. La musica è alta, ma non troppo, si può parlare. Una decina di vostri coetanei vi ronzano intorno, pescano dal tavolo, ballano, parlano, ridono. Ti riempi la mano di patatine, prendi una bottiglietta di aranciata, e più mangi patatine, e più bevi dalla bottiglietta, e più le tue labbra diventano rosse, turgide, umide. Irritate, brucianti e fresche, vive. Parli e mangi, e dici mille cose, che non gli interessano, parole che non coglie, perché le dici con quella bocca rossa, che invece coglie, in pieno, totalmente, catalizzatrice di tutto, improvviso punto fermo della sua esistenza leggerissima e nuova. Lui ti sorride, ti riempie un piattino con altre cose, lo sceglie del tuo colore preferito.

“Devo fare pipì!” dici. “Mi accompagni?”. “Sì, ti accompagno”. Il bagno è grande, pulito. C'è odore di detersivo. Dici: “Entra con me!”. Lui ti segue. Non è la prima volta. Ti sollevi il vestito, ti abbassi le mutandine bianche di cotone. La tua pipì scroscia senza vergogna. Per lui stavolta è un suono nuovo. È l'urlo del suo imbarazzo che lo fa diventare rosso. Lo preoccupa. Perché tutto quello che ha sempre visto e ascoltato fino a quel momento era attutito dal liquido amniotico della sua innocenza. Ti asciughi con la carta igienica con la cura con cui si assorbe una ferita, e ti rivesti rapida, mentre vai verso di lui, che finge di guardarsi allo specchio per guardare te. Ti lavi le mani al lavandino, le lasci bagnate e te le passi tra i capelli, risvegliando l'odore dello shampoo. Lo guardi dallo specchio. Gli sorridi. “Sei bello così, comunque” dici. Lui non dice niente, ma “bella”, pensa, è un aggettivo che per te, invece, non vale. E' come chiamare buco la luna. Gli dici: “Vuoi andare via?”. “Siamo appena arrivati”. “Sì, lo so, ma io voglio andare via”. “E dove vuoi andare?”. “Non lo so. Via”.

Lo prendi per mano, corri verso il salone, da lì subito verso l'uscita. Lui ti corre dietro senza opporre resistenza. Scendete le scale. Da lì si vede casa vostra, ma tu vai dall'altra parte. Sollevi il passo, ti giri a guardarlo, sorridi. Lui pensa che lo porterai lontano da lì, che hai voglia di stare in giro, di arrivare al mare, di prendere un gelato, di farti spingere su un'altalena. Pensa che vuoi vedere qualcosa di nuovo, fare la stupida in giro, suonare i campanelli e poi scappare, entrare nei palazzi con i portoni aperti e salire tutte le scale, fino alla cima per poi scoprire, puntualmente, che la porta per il terrazzo è sempre chiusa, e che non riesci mai a vedere quel paese dall'alto, se non da casa tua. E vorrai lasciare il tuo nome sul muro, scritto con la penna che ti porti sempre nella borsetta, e poi scendere di corsa e ritornare in strada, e continuare a camminare, a camminare, verso qualcos'altro, verso un altro capriccio.

Invece tu ti fermi, dopo pochi metri, quando il passo aveva già iniziato a risuonare come un ritmo. Ti fermi appena prima di un vicolo stretto, che mai attraversate perché avete paura, anche in pieno giorno, ma improvvisamente ti infili dentro, un cambio di velocità nelle particelle del nulla, sei uno stelo di incoscienza sotto la corolla bianca dei tuoi anni. E lo trascini dentro, le dita sul cotone della camicia infeltrita, e lo spingi contro il muro umido e spesso che vi separa dalla vostra infanzia, e gli aderisci come l'atmosfera, come l'aria, in ogni piega del ventaglio del suo desiderio nuovo di zecca. Lo abbracci, e non dici niente. Lo abbracci e basta. Forte, fortissimo. Che più stringi e più tremi, che non ti basta la forza, per attraversarlo, per fartelo diventare cosa tua anche nel corpo. E hai scoperto il fuoco, dallo sfregamento degli zigomi e della fronte, il primitivo stadio della sopravvivenza dei muscoli, del cuore, il posto più sicuro nella caverna, il fiume più puro senza controllo, la tua baracca di inesperienza minacciata dal vento, ma resistente alla fine del mondo.

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