Il 16 aprile 2012 tutto il mondo ha festeggiato il Record Store Day. Vabbè, proprio tutto il mondo no: una ristretta e irriducibile minoranza, determinata a reiterare l’amata abitudine del comprare i dischi in negozio fino all’Armageddon.

Giusto un mesetto fa ero qui a parlare del declino del mercato musicale, commentando lo spot autolesionista con cui gli editori intendevano stoppare la pirateria musicale. Immagino che legioni di adolescenti negli ultimi trenta giorni si siano autodenunciate alla polizia postale, correndo a ricomprare in formato originale tutti gli mp3 che avevano grattato in rete. Come resistere all’invito di Gino Paoli, Caterina Caselli ed Enrico Ruggeri?

Tornando serio, dicevo del Record Store Day. Io l’ho santificato, naturalmente. Sono andato in uno dei tre negozi di dischi del centro di Lucca, una splendida città che rimane, da questo punto di vista, una piacevole oasi nel deserto, e mi sono comprato un Ep da 11 pollici dei pisani Zen Circus, pescando nello scatolone dei prodotti usciti appositamente per la ricorrenza mondiale.

Prima o poi mi piacerebbe fare festa in uno dei miei negozi preferiti, a Londra, il Rough Trade East a Brick Lane o il Sister Ray a Berwick Street, sperando che la moria di shop in quella magica strada di Soho si arresti in tempo. Il disco nero, comunque, è tornato di moda, moderatamente nelle cifre di vendita (in termini percentuali sul totale) e forse più evidentemente nell’immaginario offerto dalla produzione culturale di massa (film, serie tv) e della pubblicità, dove ormai i giradischi stanno spuntando anche in gabinetto.

Ho aiutato un amico, nato nell’era digitale, a revisionare un piatto usato. Lo chiama “piastra”, e non sapeva quali dischi andassero suonati a 33 giri e quali a 45 giri, ma ha avuto voglia di dotarsi di un aggeggio analogico che fino a cinque anni fa per lui aveva lo stesso appeal di un velocipede dell’Ottocento. E questo va sotto la voce: Bene. Il disco agonizza, ma qualcosa di interessante continua ad accadere, anche fuori dalla cerchia dei miei amici. Sia dal punto di vista artistico che sul lato dell’offerta commerciale.

Per esempio c’è chi, come Joseph Arthur, fa una scelta che gli amici della federazione editori italiana probabilmente farebbero perseguire a Torquemada: regala il suo ultimo lavoro su Internet. Lo fa mettendo sul suo sito un link da cui si può scaricare il doppio album “Redemption City”, che incidentalmente non è neppure male. Arthur è un personaggio curioso, non ha mai inseguito il successo con spregiudicatezza, e probabilmente non ha avuto la voglia o la capacità di far fruttare l’apprezzamento dichiarato di molti big e le collaborazioni con gente tipo Michael Stipe e Peter Gabriel. Insomma, ha deciso così: download gratuito dell’ultimo lavoro, sia in versione mp3 che nell’ottimo formato audio Flac.

Se qualcuno vuole il vinile, se lo compra: quello è in vendita. Masochista, il signor Arthur? Probabilmente no, anche se i conti li farà il suo commercialista. Ma l’intento è far circolare la sua musica e riempire le sale da concerto, guadagnando dalla vendita dei biglietti. Che poi è ciò che fanno anche coloro che non regalano nulla sul web. Spulciando sul suo sito, si nota anche un'altra sezione interessante, quella da cui si possono scaricare, stavolta a pagamento, tutti i live che il nostro registra in giro per il mondo. L’offerta dunque è modulata sul target: si regala l’album in studio per conquistare nuovo pubblico, si mette in vendita una specie di opera omnia live, per la quale chiede un corrispettivo a una pattuglia di clienti più motivati.

Qualcosa di simile, e forse più realistico (non so quanti collezionisti “completisti” di Joseph Arthur ci siano a questo mondo) , l’avevo visto anche sul sito di Elio e le Storie Tese, dove si può acquistare un po’ di tutto, comprese le registrazioni dei concerti, pagando di volta in volta. Oppure, e qui sta la particolarità, assurgendo allo status di “ Fava”, che è il nome dei fans della band, con 30 euro annui che danno il diritto a scaricare una marea di materiale tra album in studio, live e i cosiddetti cd brulé, cioè le registrazioni istantanee dei concerti. Anche qui si parla di un gruppo che non ha nella vendita dei dischi la propria mission principale (per scelta o per accidente) e che allo stesso tempo conta su un pubblico molto affezionato, lietissimo di fregiarsi del bollino di fava, che significa essere parte della famiglia.

Poi ci sono i dischi “normali”, quelli che ci tocca pagare, e che vi invito come sempre a portavi a casa. Che vanno messi sul giradischi o che si infilano, chissà per quanto tempo ancora, nel cassettino del lettore cd. Ne sono usciti di interessanti negli ultimi tempi: ad esempio l’esordio solista di Jack White, “Blunderbuss”, che probabilmente non si ritaglierà uno spazio nel pantheon dei Grandi Album della Storia, ma che a mio parere viene discusso più di quanto merita, perché in realtà fa egregiamente il suo lavoro, aumentandovi i battiti cardiaci e facendovi battere con il piede.

E poi è tornato a farsi vivo M. Ward, stralunato folksinger alternativo, che mi aveva convinto con il precedente Hold Time, e che mi conquista anche con “A Wasteland Companion”. Rispetto al predecessore, questo è più cauto, meno libero e più “classico”, ma è pur sempre pieno di buone idee e di belle canzoni.

Che poi è buona parte di quello che chiedo ai miei dischi. Mica stiamo parlando di Mozart, ragazzi.