Io di quello che ho visto oggi non scorderò più il tuo zaino. Il peso che ti apre le spalle, oltre ogni tuo tentativo di piegarle in avanti. Ti finge fiero e invece è solo che non lo reggi. Quelle due fasce di spugna nera ti piantano sul mondo da quando hai tre anni. Prima l'asilo, poi le elementari, poi le medie, poi le superiori, poi l'università, poi boh, fino a me, ora. Ti sei portato dietro panini, e merendine, bottigliette d'acqua, libri, matite senza punta, matite con la punta, tutto quello che per te hanno comprato i tuoi genitori, tutto quello che hai rubato, tutto quello che hai perso, che hai guadagnato. Le penne cancellabili e quelle indelebili, i frammenti di tabacco nella copertina lucida dei libri, che tua madre ti metteva per non rovinarli. Ogni ti amo scritto sui quaderni, e la dedica sul diario in cui le viole sono blu, la lista dei compiti, la tabella degli orari. Due ore di italiano, poi scienze, poi qualcos'altro. Chi se lo ricorda, chi si ricorda il pianto di Renzo, la paura di Lucia, chi si ricorda quell'acqua che si adatta a tutto nell'esperimento. Eppure tutto sai, adesso. Tutto hai imparato. Ma non ti basta, quel che sai. Finché non capirai che è anche troppo.

Io di te non so niente. Solo immagino. Come se io fossi stata sempre la tua compagna di banco. E invece ti ho visto solo oggi, che mi hai chiesto di accendere ed io non fumo più da trenta giorni. E non volevi avvicinarmi, perché non avresti mai scelto un approccio così banale. Infatti ti sei voltato e sei tornato alla tua bici, e il disegno della tua mandibola mi ha fatto stringere la mia, come a voler trattenere una parola che mai avrei dovuto pronunciare. Ti ho guardato fingendo di guardare la strada nella tua direzione, e questa periferia di autocarri e muri alti e cimiteri vicini e argento finto e arancione è diventata per un istante un luogo eterno, un eden.

Aspettiamo un autobus che non arriverà. Sento l'urgenza di farti una domanda. Chiederti una qualsiasi cosa che possa farti socchiudere le labbra, darmi una risposta, un cenno del capo, che sia rivolto a me soltanto. “Dove devi arrivare?” chiedo. “Al capolinea.”, dici. E sollevi lo sguardo. Ti sfrecciano le auto ad un metro, sei un giglio che beve gas di scarico. E invece dovresti succhiare acqua e aria come un dannato. Acqua e aria limpide, di battesimo. Non rispondo. Avrei voluto dirti che forse l'autobus non sarebbe arrivato. Ma probabilmente tu te ne saresti andato. Ed io non voglio. C'è un avvenimento morboso che si scrive sul mio calendario. Qualcosa che non capisco e che interrompe la trama del romanzo, che toglie due parole a questa pagina che sto vivendo, complicandone il senso.

Ti togli lo zaino. Lo tieni stretto tra le cosce mentre ti togli la felpa azzurra. Te la leghi in vita, e ti rimetti lo zaino sulle spalle, sulla t-shirt bianca. Mi chiedo perché tu non lo abbia lasciato a terra. Perché aspetti con quel fardello addosso, come se fossi costretto a un sacrificio. Senza controllo, senza volerlo, come lame taglienti che spezzano ogni mia resistenza, le mie parole escono, di nuovo: “Dove devi arrivare?”. Ti volti piano, mi guardi come se ti avessero spento la luce negli occhi. “Al capolinea.”, ripeti. “E poi?”, dico. Sento il cuore che si divide, parte scappa da me e parte resta, parte dice: io non sto con questa scema, e parte dice: chiedigli tutto, chiedigli tutto. “E poi? Poi dove andrai? Cos'hai nello zaino? Di dove sei? Torni a casa? Vai via da casa?”.

Non penso più. Sfondata la sala d'aspetto dei pensieri, perso il filtro. Le parole le tiro fuori da altri luoghi che non sono più la testa. Un po' dalle mani, un po' dagli occhi, un po' da qualche altra parte che non so. Dissemino parole come aculei, un falso allarme di difesa, un disastro minuscolo che mi uccide. Mi guardi. Sento echi di sirene lontane, il triturare delle ruote, fionde di gente che mi fa volare i capelli, rosso, nero, bianco, grigio di vernice. Ti guardo, il respiro mi assicura che niente è irreparabile, che sono in superficie.

Ti togli lo zaino. Lo stringi tra le cosce. Apri i ganci, allarghi la cordicina. Prendi un sacchetto tra le mani. Non giustifica certo tutto quel peso. Stringi la cordicina. Chiudi i ganci. Rimetti lo zaino. Ti avvicini, guardando il sacchetto. Io ti guardo la fronte, che inspiegabilmente odio e non capisco. Come un muro che mi esclude dal mondo. Apri il sacchetto, allargando un nastrino. E' rosso e velo, come uno di quei sacchetti in cui si mettono i confetti il giorno del matrimonio. Te lo svuoti sul palmo della mano. Ed io vedo scendere elastici per capelli, e mollettine, un braccialetto, una conchiglia, un ciondolo a forma di croce, una biglia.

“Vado a restituire questi.”, dici. Ed i tuoi occhi sono sempre più vuoti di luce, e sei tanto bello quanto totalmente estraneo e indecifrabile. Indietreggio, e mi fai paura. E cammino due tre passi all'indietro e tu sei fermo, con il palmo aperto, popolato di micro oggetti, ed io non voglio vederli. Avevo chiesto la fame, non il cibo.

Non darmi niente. Non dirmi più niente.