(…) Quando ti fermi in qualcosa
tralasci di lanciarti nel tutto
per giungere del tutto al tutto
devi abbandonarti del tutto al tutto
e quando del tutto tu lo venga ad avere
devi tenerlo senza nulla volere (...).

(Juan de la Cruz, Monte Carmelo, nella traduzione di Dario Chioli)

“Non so, non è facile dire perché queste parole siano così. Fanno un percorso come fa l'acqua nella terra. Tracciano qualcosa. Senza violenza. Come se non potessero fare altro.
Come hai fatto tu con me.
Tipo quei solchi nei campi coltivati, dove ci passa l'acqua...”
“Sì, quelli per irrigare...”
“Proprio loro.”

“Non è nel momento in cui l'acqua è visibile che sta nutrendo il campo, ma quando apparentemente scompare, assorbita dalla terra.”

Come ogni mattina controllo le e-mail. Una sfilza di spam. Poi il tuo nome e cognome. Non ti vedo, non ti sento da una settimana. Da quando ho perso la penna. Ho guardato nella taschina della borsa dove la tengo, mentre cercavo l'accendino, e non c'era più. Sparita. Ho svuotato la borsa sul tavolo, ero davvero in preda al panico. Tu mi hai guardata come uno che non sa che fare di fronte a una pazza, e mi chiedevi cosa avevo perso di così importante. E io ti ripetevo che avevo perso la penna, la penna, e tu dicevi che tanto era solo una penna, di calmarmi e di smetterla di urlare, e allora ti ho spiegato che non era una penna qualsiasi, ma la penna con la quale mi hai scritto il tuo numero di telefono quando ci siamo conosciuti. Allora tu sei esploso in una sonorosissima risata che mi è arrivata addosso come una manciata di spilli. Ti ho chiesto perché cavolo stessi ridendo, cosa ti faceva ridere? Il fatto che avessi conservato la penna o il fatto che l'avessi persa? Tu ridevi e scuotevi la testa e mi dicevi di stare tranquilla, che tu eri lì, che non serve più quella dannata penna visto che ora siamo insieme. E io ti guardavo come se ti vedessi per la prima volta, perché infatti tu non sai cosa possa significare tenere a qualcosa: in casa tua non c'è niente, niente, che possa testimoniare la mia presenza. Nessuna traccia di me, nessuna cosa mia, lasciata lì anche solo per caso. Quello che dimentico tu me lo fai trovare sul tavolo, perché io possa riprendermelo quando torno. Ed è questo che ti dico, e te lo urlo in faccia, e sto ben attenta a recuperare ogni cosa mia prima di sbattermi la porta alle spalle e sparire nel buco nero delle tue scale. Di mio non c'è nemmeno il suono del passo.

Apro la mail. Nessun oggetto, nessun testo, solo un allegato. Un video. La tua casa. La tua voce. “Tu dici che non c'è traccia di te, in questa casa. Ed è vero: nessun oggetto tuo, che ti appartenga, che si possa dire “nostro”. Niente che si possa vedere. Toccare, conservare, e perdere, come una penna.

Perché non si può vedere il fruscio dei tuoi vestiti quando entravi leggera da quella porta, il tocco della tua mano che l'ha aperta, mille volte. E non si può toccare l'emozione di quando ti ho aspettata qui, la prima volta, e ti ho osservata da questa finestra, che guardavi a destra e poi a sinistra, prima di attraversare, e ti volavano i capelli in una danza rallentata, e non ricordo, no, cosa indossavi, quale fantastico abito avevi scelto, per l'occasione, perché io già ti vedevo pelle nuda su di me e questo importava, perché mai ho desiderato qualcun'altra come ho desiderato e desidero te. Non si può conservare il calore della tua giacca su questo attaccapanni, né la pioggia che portavi in casa col tuo ombrello, né l'estate che si faceva colore sulle tue guance. Non si può perdere il rosa delle tue labbra su questa tazza mia, e l'odore del tuo caffè e del tuo risveglio, le tue dita esili raccolte dal manico di ceramica. Non si può vedere l'odore della torta che mi hai fatto per il mio unico compleanno, la forma dei nostri corpi sul divano, il riflesso del tuo sguardo attento sullo schermo della tv.

Non si può toccare l'impronta dei tuoi sogni sul cuscino, e il tuo respiro sul mio viso, l'immaginario mio dietro i tuoi occhi chiusi, la prima volta che abbiamo fatto l'amore, e l'ultima. Il tuo odore su queste lenzuola, che tante volte abbiamo lavato, eppure resta. Non si può conservare il suono dei tuoi capelli tra le mie mani, le tue palpebre che si socchiudono e il tuo piacere. Non si può perdere l'eco del tuo bacio nel mio stomaco, la tua buona notte, la tua paura del buio, le parole sussurrate nell'orecchio. Non si può vedere che questa qui, questa sedia, dove te ne stavi a piedi nudi, è il tuo posto a tavola, con le tue scapole bianche su questo schienale, come accenni di ali. Non si può toccare l'abitudine dei gesti quando ti trucchi qui, di fronte a questo specchio, che se pure fosse un vortice resterebbe fermo a osservarti, mentre fai smorfie e ti protendi.

E la vedi questa faccia?
Non puoi sapere quello che è diventato l'uomo dietro questo viso, da quando tu ci sei. Non si possono vedere le radici del tuo esistere che da qui si irradiano in tutto il mio corpo, e che mi hanno cambiato e preso dall'angolo, e liberato. Non si può vedere il tuo nome chiuso nella mia gola, il tuo “sì” nel mio sangue, la sete e la fame che ora chiedono solo di te, e il nodo che mi hai stretto alle viscere, e l'affanno di non saperti seguire, se non con il mio passo lento, che esiste solo in funzione del tuo, che sa solo la strada che vedi tu. Non si può vedere il sospiro, la speranza, l'attesa, la verità.

L'acqua che nutre non resta in superficie. E' invisibile.