“Ho sognato mille sogni…”

Mille chilometri distante dal tuo letto. Come quelli che ha contato la mia auto in affitto. Mille come le lire che spendevi per il gelato. Non ti conoscevo ancora, ma ti ho vista, uscire dal mare, che avevi tredici anni, e ti sgocciolavano i capelli neri e avevi un costume da bagno blu, intero, magra come un chiodo e bianca come la coscienza di un santo, che andavi al chiosco a chiedere un cono palla e lo mordevi dal ricciolino della punta di cioccolato duro, che si rompeva sotto i denti forti. A questo penso, in questo agosto che mi brucia spietato, mentre mi fermo nel pieno del mondo per bloccare quel numero 1000 nello sguardo. E mi arriva negli occhi, gelido, come una manciata dʼinverno, a farmi lacrimare, a farmi ricordare che non credo, e che è per questo.

Ero nella stessa posizione mezzʼora fa, perché arrivavo, con un rogo liquido nella maglietta dopo il tondo paziente di chi cerca il parcheggio. Poi le infinite manovre per incastrarsi in un angolo. Poi prendere tutto, borsa, chiavi, darsi unʼultima sistemata. Il suono del campanello, il gracchiare elettrico del portone, la gomma degli stivali anche dʼestate sulle scale. E la porta che si apre e tocchi la maniglia dallʼaltra parte e tutti i materiali sono conduttori di te. E a me ogni volta viene da piangere, così, senza motivo, quando poi sollevi lo sguardo e mi sputi la ragnatela del tuo tutto nel cuore, ma resisto stoica e stupida come un imbroglio.

“Cosa volevi dirmi?”, dico. Ma non voglio saperlo perché lo so. “Siediti”, dici, come quelli che danno brutte notizie nei film. “Preferisco stare in piedi.” dico. E spero che la posizione del mio corpo possa contrastare il suono di quello che tra poco ascolterò contro la mia volontà. Vieni di fronte, due centimetri più bassa di me, i tuoi capelli uno stato nebuloso tra veglia e sonno. La pelle delle labbra liscia e tesa, un paracadute rosso sulla neve. Non si aprirà per salvarmi. Me lo sento sotto le suole, nella spina dorsale. “Tu non hai mai preso una decisione in vita tua.” “…” “Mai.” “Lo so”. Guardo le tue braccia sottili, il piccolo spazio tra loro e il resto del corpo. Ti prendo la testa con la mano, come un frutto da raccogliere prima di vederlo sfiorire. Ti guardo così, vicinissima anni luce e cerco la tua presenza, il nodo del ricordo, i punti di sutura che io ho messo lì dove ti scorre il dolore. Il sismografo delle mie dita sulla tua pelle mai ferma, lʼampiezza della nostalgia che hai per tutto, anche per quello che non sai.

Bacio, il paracadute si apre per salvarmi, un solo istante, poi si ritrae, una bufera che mi fa schiantare sulla punta dellʼEverest.

Mi stacco la ragnatela dei tuoi occhi che mi sembrava impossibile riuscirci, e la gomma degli stivali giù per le scale con la velocità rotante dei cartoni animati, ma non cʼè niente da ridere, proprio più niente, e apro la macchina come se solo in quel cubo esistesse lʼossigeno e mi disincastro ingranando marce col cuore che mi sferra colpi a casaccio come un ragazzino che non vuole tornare a casa dal mare. E guido secca e necessaria e non faccio nemmeno un isolato e quel 1000 mi guizza come un pesce nel vetro terso del cruscotto, e mi inchioda, ed io inchiodo, stritolando il freno con il piede, e resto scema e ferma e ansimante.

“Nuoterò i mari dentro di te… E come le onde, senza alcun suono, non ti deluderò mai.”

Spengo lo stereo con un colpo. Abbraccio il volante che ha le tue ossa. Non aspetto più niente. E quando sto per dare il via alle danze delle mie più plurali disperazioni, al mio ritorno più triste di tutti i ritorni, quando sto per darmi la medaglia della vittima più vittima di se stessa, sullo schermo del mio telefono sobbalza la pancia di unʼicona.

Non ho tatto per almeno tre tentativi, poi apro.

“Torna.”, c'è scritto. E sopra il tuo nome e cognome, come un titolo di coda o dʼapertura. Inversione, marce, acceleratore. E forse vuoi vedermi tornare per spararmi dalla finestra, per propormi un compromesso disonesto, per lanciarmi i vestiti che non ho mai avuto a casa tua, per darmi indietro i regali che non ti ho mai fatto, per prendermi a calci e pugni, per darmi la lista dei danni, per farmi parlare col tuo avvocato.

Il gracchiare del portone, gommascale, maniglia.

Ragnatela e poi lʼEverest mi rispedisce in volo, che ho ancora un buco enorme dentro al petto, ma mi suonano i nervi come una chitarra, e sto appesa, lì, mezza morta come mai sono stata viva in vita mia, e volteggio e sfioro tutto e non lo tocco, e mi passano attraverso gli stormi delle rondini e il cuore è tornato al mare, lo spazio tra le tue braccia e il corpo lʼho riempito io, lo spazio mio che occupo nel mondo. E ti abbraccio e oscillo perché mi balla dentro tutto il nero, impreparato a tanta luce, impreparata io a tutto questo moto che è il contrario del lasciare.

“Andiamo al mare? Agosto sta finendo e non abbiamo ancora fatto il bagno di notte.” E guido, e canti in macchina e arrotoli tabacco, i tuoi capelli fuoco nero nel vento.

“Mi strapperei lʼanima per farti mia”.

Ti volti e mi sorridi ed io mi sento immobile al margine di te, come un pettirosso sul ramo più esterno di una quercia, come il numerino in fondo alla pagina.