L’inaugurazione del Museo Archeologico Multimediale di Monterotondo, costituito da undici stanze in due location, la splendida cornice delle 4 sale affrescate di Palazzo Orsini e il pianoterra della Biblioteca Paolo Angelani, mi dà l'opportunità di presentare ai lettori un ciclo di affreschi, ignoto alle fonti sino al 1957, anno in cui Federico Zeri lo restituì al Sermoneta (1): è un ciclo, noto al tempo prevalentemente alla saggistica locale, e concordemente prima assegnato ai fratelli Zuccari. Per poter comprendere a fondo l'importanza di quella che fu una nuova, fondamentale acquisizione è necessario fare un excursus nella storia e nel travaglio della pittura dei primi decenni di quel turbolento Cinquecento del secondo millennio dell'era volgare. Gli affreschi sono ancora ben conservati e restaurati nella sala detta di Urbano VIII del Palazzo oggi Comunale di Monterotondo, già Orsini, Barberini, Grillo e Boncompagni-Ludovisi.

Quando Girolamo Siciolante vide la luce, intorno al 1521 (2), solo da pochissimi anni erano scomparsi due dei tre giganti delle arti figurative del Rinascimento italiano: Leonardo da Vinci (1519) e Raffaello Sanzio (1520), mentre continuava a lavorare sino alla tarda età quel Michelangelo Buonarroti (1564), genio sopravvissuto in un'epoca che non era più la sua, epoca storicamente morta con il sacco di Roma.

L'Europa agli inizi del Cinquecento

Devo ricordare per grandi linee la situazione politica di quell'inizio di secolo XVI, poiché è sin troppo noto come l'arte, la letteratura e la stessa filosofia di vita dei popoli sia sempre la risultante della realtà storico-politica del tempo. Nel campo politico notiamo come i primi due decenni del secolo erano stati particolarmente destabilizzanti rispetto agli equilibri che avevano retto quasi per intero il secolo precedente in tutti i campi: nello scacchiere europeo erano ormai inevitabilmente in rotta di collisione Spagna e Francia, rispettivamente con Carlo V e Francesco I.

Carlo V, infatti, forte dei suoi domini spagnoli e delle colonie di recente acquisizione in America, nonché delle corone di Napoli, Sicilia e Sardegna e ancora dei territori Asburgici di Austria, dei Paesi Bassi con la Franca Contea e della corona imperiale di Germania dal 1519, stringeva in una morsa soffocante Francesco I di Francia che dominava direttamente Milano e indirettamente Genova. Intanto la Germania era in fiamme per la Riforma, i Turchi avanzavano nell'Europa Orientale e nel Mediterraneo, mentre i principati nord-africani di Algeri, Tunisi e Tripoli infestavano le coste italiane con rovinose incursioni.

Nel campo religioso, mentre la Riforma ormai si diffondeva a macchia d'olio negli stati del Nord e l'Italia era ancora ammorbata dal pur lontano acre odore della carne carbonizzata di Girolamo Savonarola, lo Stato Pontificio si apprestava a chiudere il grande capitolo della sua seconda èra di potenza. Questa, iniziata con l'opera di Ildebrando, al quale Leone IX, morendo, aveva raccomandato le sorti della chiesa di Roma, era stata da lui, quasi predestinato al papato, perseguita con ostinata diligenza sotto quattro pontefici: Vittore II, che riuscì a dare alla chiesa un potente indirizzo di prosperità; Stefano IX che, circondandosi di insigni consiglieri in campo politico, si sforzò soprattutto di rialzare la condotta morale del clero; Nicolò II, il quale stabilì che solo i cardinali avessero il diritto di eleggere il futuro papa; Alessandro II che consumò il suo intero pontificato a riportare il clero verso una più profonda religiosità. Il riordino fu completato infine personalmente dopo essere asceso al trono di Pietro col nome di Gregorio VII.

Furono quattro secoli di potenza indiscussa che caratterizzò quell'ordinamento «gregoriano», durante il quale anche l'arte progredì sino a raggiungere i vertici del sublime Rinascimento, riverberatosi sull'intera area europea. Tanto sconvolgimento, in campo politico e religioso, giunse a quello spartiacque della storia medievale che fu il sacco di Roma (1527): Clemente VII fu l'ultimo infelice pontefice che chiuse l'èra di Ildebrando e vide lo scempio di Roma invasa «da masnade gavazzanti di lanzichenecchi muovere al Vaticano, conducendo seco vituperevoli cortigiane seminude» o «... ubriachi fradici, vestire di paramenti sacerdotali un asino e, fatta inginocchiare la bestia sugli arti anteriori, ostinarsi al volere che un prete gli avesse data la comunione...» (3).

L'arte nel Cinquecento

Ma questo sconvolgimento chiuse un'epoca anche nelle arti figurative, e non bastò a frenarlo neppure il sopravvissuto genio di Michelangelo, nel quale tuttavia «non si avverte mai il deciso abbandono della ragione figurativa rinascimentale» (4). Il Buonarroti poteva anche permettersi di non recepire il vento nuovo, pur se contestato; ricordo che il Gaye, in data 19 marzo 1549, riporta una relazione anonima nella quale si legge: «... nel medesimo mese discoperse in Sto. Spirito una Pietà, la quale mandò un fiorentino a detta Chiesa, et si diceva che l'origine veniva dallo inventor delle porcherie, salvandogli l'arte ma non devotione, Michelangelo Buonarroto. Che tutti i pittori e scultori per imitare simili capricci luterani, altro oggi per le sante chiese non si dipinge o scarpella altro che figure da sotterrar la fede et la devotione; ma spero che un giorno Iddio manderà e sua Santi a buttar per terra simili idolatrie come queste» (5).

Lo stesso non poteva accadere per i giovani artisti che s'affacciavano solo allora alla ribalta. Infatti «l'esame diretto dei dipinti sacri eseguiti nel corso della prima metà del secolo XVI a Roma rivela un progressivo accentuarsi di motivi pietistici e divozionali» (6). La decisa «conversione dei vecchi modi al vento nuovo e difficile spetta ad alcune personalità minori, nelle quali il riflesso del mondo michelangiolesco s'innesta sul tronco dell'eredità raffaellesca. Il primo di questi pittori è Girolamo Siciolante da Sermoneta(7) » (, l'opera del quale si matura alla metà del secolo XVI: è il momento in cui il concetto di pittura va naufragando verso quella «maniera» de-finita in senso negativo, dal Bellori, come «fantastica idea appoggiata alla pratica e non all'imitazione»; l'arte cioè è discesa al grado di «pratico e tecnicistico imparaticcio di imitatori».

Questo giudizio negativo sul manierismo ha coinvolto l'intero Cinquecento romano, sì che tutti i pittori di quel tempo sono stati spinti, in fascio, nel dimenticatoio (8). Eppure il fermento di quel tempo nel quale l'epiteto «luterano» poteva produrre sull'individuo lo stesso nefasto effetto che oggi si riverbera su chi, a torto o a ragione, viene bollato come «fascista», non poteva non mettere sul chi vive gli artisti del tempo! Ed ecco che l'arte si divide poco alla volta in due grandi rami: dal tronco del raffaellismo si stacca come nuovo virgulto l'arte sacra. E quelle prime intuizioni del quarto decennio del secolo XVI da parte del Sermoneta vanno verso l'accettazione generalizzata sino a divenire quasi regola canonica con il trattato di Andrea Gilio da Fabriano (9): «il trattatello del Gilio apre un nuovo capitolo nella storia della critica dell'arte, come quella che giudica l'opera dal suo valore 'divozionale', e secondo un metro che ignora il livello di qualità e le esigenze stilistiche» (10).

Pertanto nella seconda metà del secolo XVI l'arte cosiddetta sacra, che quindi non è frutto di imposizione conciliare tridentina come per troppo tempo s'è voluto sostenere, era caratterizzata da una castigata semplificazione dei dati formali secondo vie che anticipano singolarmente i «nazzareni» e i «puristi» di più di trecento anni dopo. Così la pittura religiosa veniva riformata ed era resa chiaramente intelligibile a cerchie sempre più vaste, «sfrondandola della veste aulica e letterata cui l'aveva condotta l'aristocratica moda che nella seconda metà del Quattrocento aveva dettato legge dalle mura di Palazzo Medici» (11).

Ma nel Cinquecento l'arte non era solo il prodotto della ispirazione dell'artista, anzi questo molto spesso creava a richiesta del committente: «le esigenze, gli interessi e le aspirazioni del committente venivano tramutati dall'artista in creazione pittorica» (12). E i gusti, nel tempo dell'ascesa al pontificato di Paolo III Farnese, erano dettati dal quel revival neo-feudale che caratterizzò la ripresa dello Stato Pontificio dopo il triste sacco. Ecco quindi i due modi di dipingere, a seconda del tipo di committenza: in Girolamo Siciolante ve li troviamo in maniera emblematica.

Il Sermoneta

Il Siciolante iniziò la sua carriera sotto buona stella, protetto da Camillo Caetani, potente signore di Sermoneta, al quale tale potenza derivava dall'essere cugino di Paolo III Farnese (13). Prudente e fedele al suo protettore, quasi l'intera sua carriera si sviluppò a Roma nell'arco di 35 anni, tranne che per il tempo della realizzazione di due soli viaggi a Piacenza e a Bologna (14); scrisse il Fiorani: La famiglia Caetani domina nella vita del Siciolante, come uno dei perni fondamentali: ragioni di amicizia, di protezione mecenatesca, di schietta e, non necessariamente cortigianesca, simpatia per alcune personalità rilevanti della casata stanno alla base di questo rapporto, nel quale il pittore si sente perfettamente a suo agio e di cui sembra avvertire il richiamo specie quando, lontano da Sermoneta e da Roma, si troverà a sperimentare la misurata accoglienza di altri sovrani o l'indifferenza di qualche corte principesca.

Il suo stile risente certo del periodo nel quale si trovò ad operare; Teresa Pugliatti ha scritto infatti: «L'aspetto stilistico del Sermoneta è il più problematico [...] per due diverse ragioni: una relativa alla carenza di supporti filologici; l'altra legata al particolare carattere elusivo della sua produzione [...]. Nella produzione del Sermoneta, i segni delle diverse esperienze affiorano in maniera discontinua: a volte essi si possono identificare agevolmente, e al momento ‘giusto’; a volte scompaiono per riapparire inaspettatamente a distanza di tempo come episodi isolati, e senza apparente giustificazione» (15).

Tuttavia lo Zeri nel Manierismo Romano del pieno Cinquecento, nel quale si trovò a lavorare il Sermoneta, evidenzia il raggiunto accordo fra raffaellismo e michelangiolismo; trova inoltre nel nostro pittore, dopo il benefico influsso derivatogli dalla conoscenza degli affreschi dell'Oratorio di S. Giovanni Decollato di Iacopino del Conte, «una misura e una compostezza che più tardi saranno la prima virtù del Siciolante (16)». Una virtù, un'arte pittorica che, a mano a mano che viene conosciuta, è sempre più valorizzata sia nella sua componente "sacra" (17) che manieristica "laica" (18). La committenza al Sermoneta, in quest'ultimo campo, riguardò i personaggi più importanti del Vaticano (i papi: Paolo III, Pio IV... e alcuni membri del collegio cardinalizio: Cesi, Capodiferro, Sforza, ...), nonché delle migliori famiglie romane del tempo; fra quelle documentate cito i Caetani, i Colonna, i Cenci, i Massimo, gli Orsini.

La committenza Orsini di Monterotondo è invece fra quelle non documentate: non ha trovato nulla fra le carte dell'Archivio Caetani il Fiorani, né Pier Nicola Pagliara fra quelle dell'Archivio Barberini (19). La restituzione del ciclo al Sermoneta è stata fatta dall'occhio infallibile di Federico Zeri (20). Il Pagliara, concordando con il Bruno, propenderebbe a datare gli affreschi intorno al 1553-55 e ipotizza che anche il soffitto possa essere coevo agli affreschi e opera della bottega del Siciolante (21). Gli affreschi si trovano nella cosiddetta "stanza di Adone", forse approntata nel contesto di un appartamento, come stanza da letto, per ospitare degnamente papa Leone X, figlio di Lorenzo il Magnifico.

La stanza è la seconda dell'appartamento nobile: su quattro pannelli è raffigurato il mito del dolce amante di Venere (22), in quello stile aulico, colto, neo-feudale tipico del momento. I quattro pannelli narrano di Mirra che, orgogliosa della propria bellezza, aveva disprezzato il culto di Venere. Questa volle punirla facendole nascere in cuore una sfrenata passione per il proprio padre, Cinira, re di Cipro, del quale divenne amante. Riconosciuta però da questi, è inseguita nuda nell'alcova, spada in pugno. Gli dei, mossi a compassione, mutano Mirra, ferita, in albero: dall'amore incestuoso nasce Adone, bellissimo, che diviene pastore-cacciatore. Della sua grazia si invaghisce Venere, provocando l'ira e la gelosia di Marte che invia contro il giovane uno smisurato cinghiale: nella lotta Adone rimane ferito a morte. Venere sul suo cocchio d'oro tirato da due cigni accorre presso il suo amore morente, accompagnata da Cupido e da putti che piangono e raccolgono fiori. Gli affreschi sono adoperati come arazzi inframmezzati da idee in stile raffaellesco e da grandi mascheroni con putti e festoni di fiori e frutti. Si tratta di uno stile che lontano da quel «curioso accento ottocentesco e purista ante litteram assunte da certe sue opere destinate al culto» gli consente di soddisfare i gusti di quella sceltissima cerchia di aristocratici delle più vetuste casate Romane di Roma.

In questo scrigno d’arte dal 16 maggio 2014 è collocato un nucleo consistente del Museo Archeologico Multimediale di Monterotondo gestito dalla Istituzione Culturale Monterotondo, organismo pubblico avviato il 1° dicembre 2011 come strumento di gestione e sviluppo del settore culturale di Monterotondo. L'ICM gestisce importanti contenitori come la Biblioteca Paolo Angelani con sala conferenze annessa e parte dei reperti archeologici, mentre l’altra parte del Museo Archeologico Territoriale è presso le sale affrescate di Palazzo Orsini. L'Istituzione garantisce la partecipazione dei cittadini e delle associazioni del territorio, la semplificazione nella gestione, l'introduzione di stili manageriali e il miglioramento della qualità dell'offerta culturale. Il museo comprende materiale recuperato dai carabinieri, dalla polizia e dalla finanza a seguito di controllo su scavi clandestini nel territorio circostante, in particolare Nomentum, Crustumerium ed Eretum.

I presupposti per un ottimo lavoro culturale e turistico, in questo contesto, ci sono tutti; vi è però un vulnus che viene da lontano e che porta a dare, già da ben due generazioni, sicurezze archeologiche che invece sono ancora sub iudice. Mi riferisco al sito di Eretum che dalla scuola di archeologia, insediata presso l’Istituto del Consiglio Nazionale delle Ricerche sulla via Salaria, si vuole a Casacotta, ma specialmente all’ipotesi ammannita come inconfutabile dall’Archeoclub-Sezione Mentana-Monterotondo che vuole la strada romana, prossima alla tenuta dell’Istituto Sperimentale per la Zootecnia, essere l'Antica strada romana da Nomentum ad Eretum, dopo avere ormai abbandonata, per l’evidente incongruenza, la prima idea vagheggiata dal Pala (23), che la strada fosse addirittura la via Nomentana (24).

Il vulnus poteva essere compreso e pure giustificato nei primi venti anni di confronto di idee fra le due ipotesi: Eretum = Casacotta ed Eretum = S. Anzino, non avendosi prove archeologiche sul campo. Non potrebbe (e direi ‘non dovrebbe’) più trovare alcuna giustificazione dopo il 1998, data nella quale è stato pubblicato un saggio decisivo di Vincenzo Fiocchi Nicolai. Il saggio parte da presupposti storici: […] "La ‘Passio S. Restituti’ ci fornisce anche altre preziose informazioni sul cimitero e sul santuario del XVI miglio della Nomentana. Secondo il racconto, il corpo di S. Restituto, ucciso a Roma all'epoca dell'imperatore Diocleziano, sarebbe stato trasportato al XVI miglio della Nomentana dalla pia matrona Giusta, in un 'praedium' di sua proprietà, per esservi sepolto; l'anonimo autore dello scritto ricorda che la donna non aveva trascurato di avvertire del trasferimento (con un 'constitutum') il vescovo di Nomaentum Stefano, il quale, in effetti, con tutto il clero e il popolo della città, avrebbe poi accolto il corteo funebre in Foro. La precisazione del narratore mostra in modo evidente come il santuario di S. Restituto si trovasse, all'epoca della compilazione della passio, sotto la giurisdizione della sede vescovile di Nomentum (25)". Ma sino al 1998 si poteva obiettare che troppe notizie, storicamente tramandate, al controllo critico erano risultate inattendibili. Questa invece è stata confermata esatta dal ritrovamento in loco della “catacomba” (26): lavoro rigoroso, questo del Fiocchi Nicolai e pubblicato con edizione della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra e del Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana. Siamo nel corpo vivo della conoscenza archeologica!

La mia ipotesi è stata esposta ripetutamente sin dal 1970 e di recente ribadita (vedi nota 24). A rigor di logica, come può essere spiegato dalla scienza togata che la "catacomba di S. Restituto"’, "ucciso a Roma all’epoca dell’imperatore Diocleziano e sepolto a Eretum nella diocesi di Nomentum”, sia stata ritrovata ormai inconfutabilmente a Monterotondo, mentre si continua a sostenere, ancora ufficialmente, che il sito di Eretum debba essere collocato a Casacotta in territorio di Montelibretti, al tempo, peraltro, facente parte della diocesi di Cures?

Note:
1. F. Zeri, Pittura e Controriforma, Einaudi, Torino 1957, p. 37, 2n.
2. J. Hunter, Gerolamo Siciolante da Sermoneta. Committenti e committenze, Quaderni della Fondazione Camillo Caetani, Roma 1983, p. 17.
3. F. Gregorovius, Storia della città di Roma nel Medioevo, ed. Romagna, Roma 1912, vol. 4, p. 734.
4. F. Zeri, op. cit., p. 37.
5. G. Gaye, Carteggio inedito di artisti, Firenze 1840, vol. II, p. 500, cit. da Zeri.
6. F. Zeri, op. cit., p. 37.
7. F. Zeri, op. cit., p. 37.
8. F. Zeri, Intorno a Girolamo Siciolante, in Bollettino d'Arte, a. XXXVI, serie IV, a, 1951, n. 2, p. 139.
9. J. Hunter, op. cit., p. 34.
10. F. Zeri, Pittura..., p. 31.
11. F. Zeri, Pittura…, cit., p. 34.
12. J. Hunter, op. cit., p. 14.
13. Il padre di Camillo Caetani, Guglielmo, e la madre del papa Alessandro Farnese (Paolo III), di nome Giovanna, erano fratello e sorella.
14. L. Fiorani, Lettere di Girolamo Siciolante nell'Archivio Caetani di Roma e notizia di ritrovamento di un'opera di Tullio Siciolante, Quaderni della Fondazione Camillo Caetani, Roma 1983, p. 111.
15. T. Pugliatti, Girolamo Siciolante da Sermoneta. Considerazioni e proposte per una ricostruzione del percorso stilistico, Quaderni della Fondazione Camillo Caetani, Roma 1983, pp. 79-80.
16. F. Zeri, Intorno a Girolamo..., cit., p. 141.
17. T. Pugliatti, op. cit., p. 81 sgg; F. Zeri, Intorno a G., cit., pp. 139-149; R. Bruno, Girolamo Siciolante. Revisioni e verifiche ricostruttive, in La Critica d'Arte, n. 130, 1973 e n. 136, 1974.
18. E. Gaudioso, I lavori farnesiani a Castel S. Angelo, in Bollettino d'Arte nn. 1-2-3-4 del 1976 (estratto), p. 22 sgg; F. Zeri, Pittura..., cit., p. 53; T. Pugliatti, Due momenti di Girolamo Siciolante da Sermoneta e il problema degli interventi nella Sala Paolina di Castel S. Angelo, in Quaderni dell'Istituto di Storia dell'Arte medievale e moderna. Facoltà di Lettere e Filosofia. Università di Messina, n. 4, 1980, pp. 11-29; O. Raggio, Vignole, Fra Damiano et Gerolamo Siciolante à la chapelle de la Bastie d'Urfé, in Revue de l'Art, n. 15, 1972, pp. 29-52; J. Hunter, Committenze secolari, cit., p. 42.
19. P.N. Pagliara, Monterotondo, in Storia dell'Arte italiana, vol. VIII, ed. Einaudi, Torino 1980, pp. 233-278.
20. F. Zeri, Pittura..., cit., p. 37, 2n. A proposito di questo magico «occhio», cfr.: G. Testori, Un ingegno solitario a guardia dell'arte, Corriere della Sera, 16 maggio 1984, p. 3; ID., II metro dell'arte è la qualità, 18 aprile 1985, p. 3; M. Bona Castellotti, Federico Zeri entra in Milano, Il Sole-24 ore, 14 aprile 1985, p. 21; P. Rosemberg, Le Louvre cet inconnu, L'Express, n. 1690, 2 dicembre 1983, p. 90; R. Zorzi, Con l'occhio del Maestro, Il Sole-24 Ore, 6 maggio 1985, p. 19.
21. P. N. Pagliara, op. cit, p. 252, 22n e p. 253, 23n.
22. S. G. Vicario, Monterotondo in Sabina, Roma 1970, p. 133.
23. C. Pala, Nomentum, De Luca ed., Roma 1976.
24. Sull’argomento si confronti: Vicario, Eretum a Casacotta? Una incertissima certezza, Edizioni Zuccarello, Sant’Agata di Militello, 2010; Id., Riflessioni a caldo dopo la lettura della tesi “La Diocesi di Nomentum dalla Tarda Antichità all’Altomedioevo” di Silvia Cipolletta (pp. 5-7) e Eretum (pp. 18-19), Annali 2011 dell’Associazione Nomentana di Storia e Archeologia onlus (scarcabili da PDF).
25. Acta Sanctorum, Maii, VII Parisiis et Romae, 1867, p. 13. Sulla passio e la sua datazione, cfr. Lanzoni, Le diocesi d'Italia dalle origini al principio del sec. VII (an. 604) (= Studi e Testi, 35), I, Faenza, 1927, pp. 139, 142; A. Du Fourcq, Étude sur les Gesta Martyrum romains, I, Paris, 1900, pp. 212-213; C. Cristiano, San Restituto di Eretum del 27 maggio, in AA.VV., I santi sabini. Studi e ricerche, Poggio Mirteto, 1975 (pro manuscripto), pp. 123-124; G. N. Verrando, Agiografia sorana: passione di S. Restituta, in Antichità paleocristiane e altomedievali del Sorano. Atti del Convegno di Studi, Sora, 1-2 dicembre 1984, Sora, 1985, pp. 86-87 (nel testo nota 6).
26. V. Fiocchi Nicolai, La catacomba di S. Restituto a Monterotondo (Roma): un monumento recentemente ritrovato, Rivista di Archeologia Cristiana, Città del Vaticano 1998, pp. 63-92 con ill. nel testo e 1 tavola con la planimetria della catacomba.