Come si studia il jazz? Raccontaci la tua esperienza formativa.

E’ sicuramente molto soggettivo, alcuni direbbero che non si studia ma si suona. Io dal canto mio metto nella pratica, che è soprattutto ricerca e tanta curiosità, il metodo e la costanza, derivatimi probabilmente dalla classica. Adoro curare il dettaglio e allo stesso tempo lavorare a istinto e giocare su questi due binari sfruttandone il contrasto. La mia esperienza musicale è partita dalla scuola musicale della banda del mio paese all’età di sei anni, per poi affrontare un lungo periodo di studi in conservatorio terminato nel 2012. Accanto a ciò, ho sempre abbracciato anche la cosiddetta “musica moderna” esibendomi live fin da quando avevo dodici anni prima con la batteria e successivamente con il vibrafono.

Perché le percussioni? Per sfogare una particolare energia interiore, perché danno il tempo agli altri strumenti, o... ?

Le percussioni sono strumenti solisti e quindi appaganti per la loro unicità. Spesso collocate in posizione arretrata rispetto agli altri strumenti, esse sono in realtà sempre in prima linea determinando pulsazione, energia e colore dell’intera esecuzione. Vista poi la grande varietà di strumenti a disposizione, l’applicazione nei più diversi ambiti musicali risulta particolarmente agevole.

Quali sono stati i tuoi maestri, cosa hai appreso da ognuno, una frase che ti ricordi che ti diceva spesso uno di loro? Tutto ciò che vuoi dirci sull’importanza di avere gli insegnanti giusti.

Ho avuto la fortuna di studiare e confrontarmi con tanti musicisti. Trovare, ma anche cercare, gli insegnanti giusti che sappiano infiammare la tua voglia di musica è fondamentale. Per quanto mi riguarda, lo studio e la passione per il vibrafono li devo a Saverio Tasca, musicista eclettico che mi ha fatto innamorare di questo strumento. Nell’arco della mia esperienza musicale sono rimasto poi particolarmente colpito da due frasi; la prima del tenorista Robert Bonisolo: “Quando improvvisi e ti viene voglia di fare una cosa fanne un'altra” e l’altra del chitarrista Lorenzo Frizzera: “Crea l’equilibrio tra il tuo lato animale e quello architettonico”. Due preziosi consigli che tengo sempre ben presenti.

Cosa vuol dire suonare in un’orchestra?

Suonare in un’orchestra dà l’opportunità di immergersi in capolavori assoluti dai quali non possiamo che trarre esempio. C’è quell’aspetto fortemente collettivo che affascina: un insieme di persone che ogni volta riporta alla vita musica meravigliosa. Per me che ho la possibilità di collaborare con diverse orchestre è sorprendente vedere come ognuna di esse interpreti questi capolavori con il proprio personale respiro musicale, il proprio suono, il proprio repertorio. Suonare in ambito classico è un notevole arricchimento anche perché è una professione in cui è richiesto il massimo dal punto di vista tecnico e strumentale e pertanto si impongono quel rigore e quella precisione che io cerco di trasferire poi anche in ambito moderno.

Studio accademico e musica moderna. Classicismo del ‘900 e underground. Come si sposano?

E’ una bella domanda che spesso mi faccio pure io. In comune per me c’è la disciplina, quindi metodo e costanza. In fin dei conti è sempre musica e quindi a prescindere dallo stile, l’attrazione per la sperimentazione nei vari ambiti resta immutata. Passare da un concerto sinfonico a un festival jazz è sicuramente un buon allenamento per mantenere una certa elasticità mentale e strumentale.

Composizione vs esecuzione, cosa ti riesce meglio?

La risposta non posso darla io ma chi mi ascolta. Posso però provare a descrivere quelle che sono le mie sensazioni: quando interpreto un lavoro classico c’è una cura maniacale del dettaglio. Negli strumenti a percussione, infatti, anche il colpo di triangolo deve avere il battente, il suono, il respiro giusto, ecc… dai il tuo apporto ma è tutto molto calcolato. Quando invece scrivi e poi suoni la musica “moderna”, se così vogliamo chiamarla, si apre un mondo dove tu manipoli i parametri della musica, lavori per istinto, poi per architettura, li unisci, sperimenti e inizi a viaggiare.

Nel 2012 nasce il Mirko Pedrotti Quintet, raccontaci la storia di questo quintetto d’eccezione. Da chi è composto, quali sono le caratteristiche di ognuno di voi, cosa propone, come è suonare in cinque.

Nel dicembre del 2012 ho chiesto ad alcuni compagni di studi (frequentavamo il biennio di specializzazione jazz in Conservatorio) di trovarci per provare alcune mie composizioni; sei mesi dopo è nato Kimèra. Alla realizzazione di questo disco hanno partecipato 7 musicisti me compreso e, nonostante il lavoro si sia focalizzato soprattutto sul quintetto, abbiamo utilizzato anche dei sottogruppi come il trio e il quartetto, cercando di far emergere le peculiarità musicali di ciascuno. Attualmente la formazione ha trovato il suo equilibrio ed è formata da Mirko Pedrotti al vibrafono, Lorenzo Sighel al sax contralto, Luca Olzer al pianoforte/fender rhodes e sintetizzatore, Michele Bazzanella al basso elettrico e Matteo Giordani alla batteria. L’obiettivo è attrarre insieme agli appassionati del settore anche il pubblico più giovane attraverso una musica energica e contaminata. Abbiamo anche realizzato dei video in studio, visualizzabili su youtube o sul mio sito internet.

Come ci hai appena detto, il primo progetto discografico del Mirko Pedrotti Quintet è Kimèra. Come mai questo nome? La musica può essere a volte una chimera?

Kimèra è il nome della prima traccia del nostro disco ed è anche il primo brano che ho scritto pensando a una formazione strumentale di questo tipo. Il nome deriva dalla costruzione ritmica del tema, ricca di variazioni e cambi di tempo, un po’ come le diverse parti che formavano il mostro mitologico in questione.

Nel 2013 avete vinto il Barga Jazz Festival, che esperienza è stata?

Esperienza più che positiva anche perché il concorso è stato molto selettivo; infatti, sono state scelte, attraverso il materiale audio inviato, solamente quattro formazioni, le quali per la finale hanno dovuto esibirsi per 40 minuti circa. La nostra vittoria, insieme al secondo posto conquistato un mese prima al Baronissi Jazz Contest, ha dato una grande spinta propulsiva al nostro progetto regalandoci anche quella visibilità a livello nazionale che è sempre difficile trovare agli esordi.

Ora siete in tour? Siete stati da poco in Umbria, quali sono le prossime tappe?

L’Umbria è una regione fantastica che ci ha accolti con grande affetto e ci ritorneremo tra pochi giorni per un'altra serie di concerti. Ad Agosto invece è in programma un mini tour in Abruzzo tra Pescara e dintorni. Il feedback ricevuto dopo questi primi concerti è stato più che positivo.

Progetti per il futuro. Cinque è un numero che porta bene?

Certamente sì e come si dice “squadra che vince non si cambia”. Trovare l’equilibrio all’interno del gruppo è cosa rara e difficile. Una volta raggiunto, esso va curato e tutelato poiché è il motore di tutto. Allo stato attuale i prossimi progetti futuri saranno il nuovo disco nel 2015 e un’intensa attività live anche all’estero dove abbiamo diversi contatti. Stiamo lavorando anche alla creazione di un nuovo video che gireremo in una location “particolare”; seguite gli aggiornamenti sulla nostra pagina facebook.

Il vostro suonare insieme è sinonimo di fratellanza, quella che crea solo la musica. Come dice John Coltrane: “Il jazz, se si vuole chiamarlo così, è un’espressione musicale; e questa musica è per me espressione degli ideali più alti. C’è dunque bisogno di fratellanza, e credo che con la fratellanza non ci sarebbe povertà. E con la fratellanza non ci sarebbe nemmeno la guerra”. Cosa ne pensi?

La fratellanza come la condivisione sarebbero la soluzione dei tanti problemi che giornalmente affliggono nazioni, paesi e popoli. Nella musica, come nelle dinamiche di gruppo, questi sono ideali cui dobbiamo cercare di protendere sempre. Per quella che è la mia esperienza, la musica non mente. Essa è specchio veritiero degli stati d’animo delle persone con le quali suoni e condividi un progetto. Se c’è sintonia, allora c’è terreno fertile per far nascere qualcosa di unico in grado di creare un legame speciale anche con il pubblico. L’empatia tocca corde nascoste, sensazioni di pancia che ci ricordano che siamo vivi e che senza emozioni il nostro vivere avrebbe il sapore del niente.

Per maggiori informazioni: www.mirkopedrotti.com