ArtNoble Gallery è lieta di presentare Né qui, né altrove. On domestication, mostra colletti- va con la partecipazione di Friedrich Andreoni, Hernán Pitto Bellocchio, Zazzaro Otto, Francesca Pionati, Simon Starling, Marko Tadić e Andrea Zittel, a cura di Arnold Braho.

Il progetto espositivo Né qui, né altrove. On domestication prende il titolo da un episodio crucia- le della storia recente dei movimenti sociali in Italia: la manifestazione del 30 novembre 2002 contro i centri di permanenza temporanea. Con lo slogan Né qui, né altrove, quell’evento non si limitava a contestare un singolo luogo di detenzione, ma denunciava un sistema più ampio di confinamento e di controllo, mettendo in luce come la violenza spaziale agisse allora in relazione alle politiche migratorie e alle trasformazioni del lavoro in un contesto globale.

Né qui, né altrove. On domestication intende così interrogare lo spazio come dispositivo politico, capace di stabilire gradi di inclusione ed esclusione senza mai produrre un “fuori” assoluto. In questa prospettiva, l’esposizione assume questo evento come punto di partenza per riflettere sulle forme contemporanee di controllo, sugli spazi porosi della globalizzazione e sulla possibilità di immaginare un altrove che non coincida né con l’isolamento né con la rassegnazione. Il progetto si ricollega a quelle dinamiche di violenza spaziale che attraversano oggi le diverse forme del potere, manifestandosi tanto nelle politiche urbane di gentrificazione e di esclusione sociale come nel caso del Leoncavallo, tanto quanto le violenze imperialiste nei territori palestinesi.

La domesticazione (dal latino domesticus “relativo alla casa”) è un concetto multidimensionale: attraversa biologia, sociologia, studi culturali e teoria politica. In ogni ambito, essa indica un processo di controllo, adattamento e trasformazione che rende ciò che è esterno e diverso, conforme e funzionale a un ordine stabilito. Le tecniche di organizzazione e controllo dello stesso — come la segregazione urbana, la creazione di confini, l’accesso differenziato a servizi e risorse — producono inclusione o esclusione, appartenenza o marginalità. La violenza spaziale (Eyal Weizman) è un concetto che descrive come lo spazio stesso, il paesaggio e l’ambiente costruito diventino strumenti attivi di dominio, controllo e oppressione. In particolare, Weizman sostiene che lo spazio non sia solo un luogo passivo dove si svolgono eventi di violenza, ma sia il mezzo stesso attraverso cui la violenza si esercita e si struttura.

A partire da questi presupposti la mostra intende esplorare la domesticazione come processo. Non si tratta semplicemente di produrre familiarità, ma di osservare come certi simboli, immagini e soggetti vengano normalizzati, integrati, controllati e infine repressi. Eppure, qualcosa sfugge: cosa resiste a questo movimento di cattura?

All’interno della mostra sono presentate pratiche artistiche che affrontano, da prospettive differenti, le tensioni tra controllo, spazio e possibilità di fuga. Francesca Pionati esplora le relazioni tra infrastrutture urbane, governance e ritualità contemporanee. Il suo lavoro trasforma gli spazi controllati in luoghi di resistenza informale e architetture autonome, mettendo in scena tensioni politiche ed estetiche e ridefinendo le modalità di abitare e percepire l’ambiente urbano, mentre Andrea Zittel esplora le modalità dell’abitare come pratica artistica e sociale, interrogandosi su come gli spazi, gli oggetti e le routine quotidiane possano essere ripensati per sfidare le convenzioni e stimolare nuove forme di esistenza.

Nei lavori di Friedrich Andreoni gli oggetti si ribaltano: strumenti pensati per aprire diventano barriere, vie di fuga si trasformano in vicoli ciechi; mentre Zazzaro Otto attraversa le gerarchie sociali trasformando materiali eterogenei in dispositivi ironici che mettono in scena l’alienazione e le contraddizioni della precarietà contemporanea. Marko Tadić indaga l’utopia e le politiche espositive, esplorando l’idea di mostrare attraverso dispositivi narrativi e forme visive che ridefiniscono l’exhibition display e le modalità di fruizione dello spazio espositivo, mentre Hernán Pitto Bellocchio reinterpreta i centri del potere come rovine, privandoli della loro aura di stabilità. Infine, Simon Starling intreccia storie naturali, coloniali e culturali, trasformando oggetti, spazi e processi in operazioni discorsive che rivelano le dinamiche profonde della memoria, delle tracce storiche e dei modi in cui il passato viene costruito e reinterpretato.

(Testo di Arnold Braho)