Se s’incapricciava di un capo di alta moda e pensava che avrebbe donato di più alla sua collezione di appassionato che a quella di un museo, Azzedine Alaïa non esitava a ingarellarsi per l’acquisizione, ci fossero da sfidare perfino i denari e il potere del Metropolitan di New York, The Met. Un atteggiamento faraonico, quello del couturier tunisino il quale, infatti, ricorse all’antico Egitto per svelarsi in un’intervista a Olivier Saillard: “Sono vecchio come i Faraoni! Penso di poter dire che i miei abiti non siano databili, ma fatti per superare il test del tempo. Dal mio arrivo a Parigi negli anni Cinquanta, credo di non aver mai risposto ad altri imperativi che a quelli delle donne che mi circondavano e circondano. Posso cominciare un vestito o una giacca un anno e sentire che sono finiti dieci anni dopo”.
La grandiosità, ma senza la superbia del censo: “Non mi piace la gente che dimentica da dove ha cominciato”. Alaïa (1935-2017), considerato uno degli ultimi maestri, in grado di padroneggiare ogni fase di un capo, dalla progettazione alla realizzazione, aveva cominciato in Tunisia dove sua nonna Manou Bia era uno spirito libero e aveva cresciuto lui e sua sorella “nel più incredibile dei modi”. E dove, benché fosse solito vedere ragazze stupende, fu folgorato da Silvana Mangano che “quando cammina nel campo di riso con i suoi pantaloncini corti è il massimo dello chic”. Non solo Riso amaro: quando andava al cinema vedeva lo stesso film tre volte di seguito, si concentrava prima sulla storia, poi sui costumi e le scenografie, infine sulle prove degli attori e l’indomani, o nei giorni seguenti, riassumeva il film ai suoi compagni in cambio di pastelli colorati.
Madame Pineau, l’ostetrica che lo portò nel mondo, fu una seconda madre per lui. Andava spesso da lei, assisteva alle nascite, l’aiutava a scaldare l’acqua. Ad appena dieci anni sapeva già tutto sui neonati. “A casa sua divoravo i cataloghi, i giornali di medicina con le copie delle opere d’arte e le poche riviste di moda dove ammiravo i modelli di Dior e Balenciaga”. Madame Pineau, intuendo il talento artistico del ragazzino, raccontò ancora Alaïa a Olivier Saillard, lo incoraggiò a mandare la sua candidatura per le selezioni della Scuola di belle arti di Tunisi. All’oscuro del padre. E mentì al direttore dell’istituto, giurando che Azzedine aveva già sedici anni. “Per pagarmi gli studi avrei lavorato per le sarte locali: avevo imparato a cucire facendo gli esercizi di cucito di mia sorella Hafida che non si divertiva con i lavori manuali”.
Cristóbal Balenciaga (1895-1972), invece, aveva cominciato in Spagna, nei Paesi Baschi, in un’epoca più lontana, figlio di un pescatore che lo lasciò orfano a undici anni, elesse sua madre figura di riferimento, abbeverandosi alla classe dei marchesi di Casa-Torres dove lei lavorava come sarta.
Nel 1917, a 22 anni, aprì il suo primo atelier e nel 1937, a causa della guerra civile, si trasferì a Parigi. Avenue George V, 10 fu il suo indirizzo. Soprannominato da Christian Dior (1905-1957) “il maestro di tutti noi”, Balenciaga sosteneva che un modisto, lo scriviamo alla spagnola per omaggio, “deve essere un architetto per i piani, uno scultore per la forma, un musicista per l’armonia e un filosofo per il senso delle proporzioni”. Coco Chanel (1883-1971) si pronunciò, lapidaria: “L’unico vero couturier, in fondo, era lui, gli altri sono solo fashion designer» e, rimanendo fra i sarti leggendari, Hubert de Givenchy (1927-2018), lo definì “l’architetto dell’Alta Moda”.
Proprio Givenchy desiderava che Azzedine e Cristóbal, i due storici talenti stranieri della haute couture francese dialogassero a distanza, così nel 2020 è nata a Parigi, alla Fondation Alaïa, la mostra Alaïa e Balenciaga. Scultori di forma curata da Olivier Saillard che dal prossimo 25 ottobre arriverà in Italia, fino al 3 maggio 2026, negli spazi industriali dell’ex Fabbrica Campolmi di Prato, sede del Museo del Tessuto che celebra il suo cinquantesimo.
Quando nel 1968 la Maison Balenciaga chiuse - si tramanda che la socialite americana Mona von Bismarck fu così scioccata dalla notizia da rintanarsi in camera per tre giorni e tre notti - madame Renée, che per decenni ne era stata vicedirettrice generale, chiamò il giovane stilista emergente Alaïa a scegliere una selezione di creazioni di Cristòbal perché solo le sue mani, il suo sguardo, avrebbero potuto rivisitarle senza tradirle. Azzedine, allora 33 anni, restò talmente stupefatto dalle forme, dalle architetture dei tagli e dall’abilità tecnica di ogni capo che da allora coltivò un profondo rispetto per la storia della moda e ritenne l’incontro con l’opera del magister iberico il punto di partenza per la riscoperta dei geni dello stile.
Le clienti mi portavano abiti di Balenciaga e mi chiedevano di accorciare l’orlo: io chiedevo se potevo tenere gli abiti e fare invece qualcosa di nuovo per loro. È in quel periodo che ho iniziato a prendere coscienza del fatto che la moda è un patrimonio culturale. È importante dare ai giovani stilisti l’opportunità di scoprire il lavoro e le tecniche di chi li ha preceduti.
(Revue des deux mondes, 2014)
A Prato cinquanta abiti, 25 a stilista, provenienti dalla Fondation Alaïa e documenti e video originali custoditi nei Balenciaga Archives per un confronto fra i due abilissimi sperimentatori di forme e volumi. Tra i capolavori dello charme dei quali innamorarsi: lo spencer di Alaïa della collezione Couture Autunno /Inverno 1986 che trova ispirazione nella giacca Haute couture del 1938 di Balenciaga e i bolero del 1986 e ’89 che richiamano quelli del 1940, disegnati dal predecessore.
Con Alaïa e Balenciaga. Scultori di forma il Museo del Tessuto prosegue il percorso di studio e della valorizzazione della moda dopo le mostre dedicate, dal 2014 a oggi, a Gianfranco Ferrè, architettonico pure lui, Ossie Clark e Celia Birtwell, protagonisti della scena londinese degli Sessanta/Settanta e Walter Albini padre del prêt-à-porter italiano. L’esposizione, annunciata a giugno a Pitti Immagine da Fabia Romagnoli, presidente della Fondazione Museo del Tessuto, Carla Sozzani, presidente di Fondation Alaïa, Chiara Bartolini, assessora al turismo di Prato, Filippo Guarini e Daniela Degl’Innocenti, direttore e conservatrice del Museo del Tessuto, è realizzata con il supporto di: Comune di Prato, Fondazione Cassa di Risparmio di Prato, Saperi, Estra, Direzione Generale Educazione e Ricerca e Istituti Culturali del Ministero della Cultura, Regione Toscana.
Cristóbal Balenciaga concedeva con parsimonia le sue parole, si narra di una sola intervista in un cinquantennio, ma affermò: “Una donna non ha bisogno di essere perfetta e nemmeno bella per indossare i miei abiti. Il vestito farà tutto questo per lei”.
In caso di crisi estetica, momentanea o permanente, motivata o immotivata, gioverà visitare l’esposizione pratese al fine di capire cosa indossare per sentirsi decenti. Se poi Cristóbal aveva torto… ancora bruttine, ma più colte.