Mallorca è un’isola costruita nella pietra. La sua architettura tradizionale, tanto urbana quanto rurale, è il risultato di secoli di adattamento al clima mediterraneo e di stratificazioni culturali che hanno dato forma a paesaggi unici. I muretti a secco, che percorrono colline e terrazzamenti, ne sono forse l’emblema più immediato. Realizzati senza malta, con l’abilità antica di incastrare le pietre in equilibrio, non sono solo infrastrutture agricole: sono simboli di resilienza e di sapienza collettiva. Custodiscono i campi, reggono i terrazzamenti dove crescono ulivi e viti, tracciano i confini tra comunità e proprietà. Per questo, nel 2018, la tecnica dei muretti a secco è stata riconosciuta come Patrimonio immateriale dell’umanità dall’UNESCO, a testimonianza di un’arte che unisce funzionalità, estetica e sostenibilità.
Nelle città e nei villaggi, invece, l’architettura in pietra prende un’altra forma: quella dei pati interni. Le case che si affacciano lungo le strade principali mostrano facciate sobrie, quasi austere, dietro le quali si aprono cortili freschi, ombreggiati, spesso ornati da piante e fontane. È un’architettura di protezione e di intimità, che offre riparo dalla calura estiva e, allo stesso tempo, diventa luogo di incontro domestico e familiare. Questi cortili raccontano una cultura mediterranea che ha sempre saputo conciliare apertura e chiusura: chiusura verso la strada, per difendersi dal sole e dagli sguardi indiscreti; apertura verso l’interno, dove la vita comunitaria trova il suo spazio naturale.
Su questo orizzonte basso e raccolto, si stagliano i campanili gotici e le facciate severe delle chiese. La verticalità delle torri non è mai eccesso, ma misura: emerge come punto di riferimento visivo per chi arriva da lontano, e come centro simbolico per la comunità che vi si raccoglie intorno. La pietra si innalza verso il cielo.
Le chiese diventano fondali naturali per feste popolari, mercati, processioni: non solo luoghi di culto, ma spazi civici che orchestrano la vita collettiva. In questo dialogo continuo tra pietra e comunità, tra intimità e monumentalità, Mallorca trova la sua “giusta misura”: un’architettura che non è mai solo costruzione, ma racconto condiviso di storia, paesaggio e identità.
Quando Junípero Serra lascia Mallorca per attraversare l’oceano e approdare prima in Messico e poi in California, non porta con sé soltanto il bagaglio di un missionario francescano, ma anche un patrimonio estetico e culturale radicato nell’architettura gotica e barocca catalana. Le navate snelle delle chiese di Palma, Manacor e Petra, la luce filtrata dai rosoni, l’austerità dei contrafforti: tutto questo diventa parte invisibile del suo linguaggio, un codice che riaffiora e si trasforma quando incontra i territori e i popoli del Nuovo Mondo.
Junípero Serra nasce a Petra, nel cuore di Mallorca, il 24 novembre 1713. Dopo gli anni di formazione nel convento francescano di Palma, viene ordinato sacerdote intorno al 1738. La sua vocazione missionaria lo conduce prima in Messico e, infine, in Alta California, dove muore il 28 agosto 1784 presso la Missione di San Carlos Borromeo a Carmel. Il suo percorso non è soltanto spirituale, ma anche profondamente architettonico e culturale: le missioni che fonda diventano i primi nuclei urbani di molte città californiane e, ancora oggi, segnano l’identità di luoghi come San Diego e San Francisco.
A San Diego, Serra inaugura nel 1769 la Missione di San Diego de Alcalá, primo presidio religioso della regione. L’architettura della missione si inserisce in un paesaggio caratterizzato da materiali poveri e soluzioni adattive. Le mura in adobe, spesse e compatte, regolano la temperatura interna proteggendo dal calore estivo e dalla rigidità invernale. I tetti in tegole, i portici e i cortili interni creano spazi di ombra e ventilazione, traducendo l’eredità mediterranea in un linguaggio adatto alle condizioni climatiche locali. Non si tratta di una monumentalità fine a sé stessa, ma di un’architettura che tiene insieme funzione religiosa, organizzazione agricola e coesione comunitaria.
Il suo viaggio non è lineare, ma fatto di incontri con culture molto diverse. La sobrietà mediterranea incontra l’esuberanza barocca delle chiese messicane, dove i retabli dorati e le facciate scolpite narrano la vitalità di un cattolicesimo che si è già intrecciato con tradizioni indigene. Le geometrie gotiche si contaminano con simboli preispanici, accolgono elementi locali come la pietra vulcanica o i legni delle foreste tropicali. Non si tratta di un semplice trapianto di forme europee: è un dialogo, spesso asimmetrico e conflittuale, ma anche fertile e creativo.
Qualche anno più tardi, a San Francisco, Serra promuove la fondazione della Missione di San Francisco de Asís, conosciuta come Mission Dolores. Qui, nel 1791, viene completata una cappella in adobe che rappresenta uno dei più antichi edifici ancora esistenti della città. L’impianto è semplice e austero, con pareti spesse, poche aperture, travature lignee e superfici intonacate. La verticalità non si esprime attraverso le grandi torri gotiche, ma attraverso l’espadaña, il campanile a parete che domina l’ingresso: una forma sobria e riconoscibile, capace di farsi vedere da lontano e di segnare la centralità della missione nel territorio. Attorno alla chiesa, come in San Diego, si sviluppano spazi di lavoro e di vita: magazzini, alloggi, stalle, orti e campi.
Prima ancora che la luce dei rosoni gotici invadesse le navate delle chiese di Mallorca, l’isola era già attraversata da una lunga storia di stratificazioni culturali. Fenici, cartaginesi, romani: ognuno ha lasciato un segno tangibile, inciso nella terra e nelle pietre. I Romani, in particolare, introdussero un’organizzazione agraria e infrastrutturale che avrebbe segnato profondamente il paesaggio. Granaia e horrea, i grandi depositi per il grano, non erano soltanto spazi funzionali ma anche dispositivi simbolici: custodivano la ricchezza collettiva, rappresentavano il controllo sulla fertilità della terra e la capacità dell’impero di garantire sussistenza e stabilità.
Questa memoria ancestrale non scompare con il Medioevo. Al contrario, si trasforma e si trascrive nelle nuove architetture cristiane. Quando, a partire dal XIII secolo, il regno d’Aragona consolida la sua presenza sulle isole Baleari, Mallorca diventa laboratorio di un gotico peculiare, distinto da quello nordico e francese. Qui, la verticalità non è mai slancio smisurato verso l’alto, ma equilibrio con l’orizzonte mediterraneo. Le navate ampie, le volte a vela e l’uso misurato della decorazione rispecchiano un senso di sobrietà luminosa, in cui la funzionalità convive con la monumentalità.
La Cattedrale di Palma, la Seu, ne è l’esempio più emblematico: costruita a partire dal 1229 sul luogo di una preesistente moschea, essa sembra racchiudere in sé la memoria di tutti i luoghi di culto e di stoccaggio che l’hanno preceduta. L’impianto gotico si nutre della tradizione catalana, ma le proporzioni e l’uso della luce sono già espressione di un genius loci radicato nella storia dell’isola.
In fondo, la storia di Serra e delle sue missioni è la prosecuzione di un destino già scritto sulle rive del Mare Nostrum: ogni cultura che vi si affaccia porta con sé un frammento che, mescolato agli altri, genera nuove forme. Fenici e arabi, cristiani e indigeni, gotico e barocco, adobe e pietra calcarea: il Mediterraneo e le Americhe si specchiano in questa logica della contaminazione. È in questo continuo intreccio che l’architettura rivela la sua essenza più profonda: non oggetto immobile, ma narrazione di incontri, testimonianza visibile di differenze che convivono e si trasformano.
Ringrazio il Museo di Junípero Serra a Petra per le foto del materiale di archivio, Mallorca, Spagna.