A un’estremità la piatta piana di Albenga, affacciata sul mare, con le sue serre, destinate all’orticoltura, e i suoi prati, meta invernale di un antico cammino della transumanza; dall’altra le malghe e i pascoli di Mònesi e Briga Alta con la poderosa cima del Monte Frontè (2152 m), nelle Alpi Marittime; in mezzo, a unire, anziché separare, la Valle Arroscia, che prende nome dal fiume che l’attraversa. Un’importante area di comunicazione, la cui strada matrice da secoli collega la Riviera ligure di Ponente all’Alta Langa Monregalese e al Basso Piemonte.
Lasciata Albenga, punto apicale di costa per le valli che da lì si dipartono verso l’interno, una via a nord di Bastia, tra paesaggi di terra e di mare, risale la vallata, disseminata di centri storici medievali, custodi di chiese e castelli, ruderi e tesori d’arte. Dalla arteria viaria di fondovalle gli abitati si notano con estrema evidenza. Distesi nella pianura, adagiati sugli ondulati pendii o aggrappati alla cresta delle montagne, sono dominati da svettanti campanili ad alta cuspide.
E girando in Valle Arroscia a uno sguardo attento non sfugge neppure il costante e sapiente uso della pietra: nei blasoni familiari sulle sovrapporte dei palazzi, nei portali scolpiti e nelle torri campanarie dei luoghi di culto, nei muretti a secco che delimitano le “fasce” dei terrazzamenti agricoli faticosamente ricavati sui dorsi di colline e montagne, nei ponti gettati tra le opposte rive di un torrentello. In queste amene contrade il mestiere del tagliapietre ha radici millenarie, risale al dinamico processo di formazione dei nuclei demici, avviato nei secoli X e XI. Un’età di passaggio, nel corso della quale si attua un decisivo cambiamento, che muta progressivamente il ruolo della regione, da allora in poi sede privilegiata per l’affermazione di un’economia di mercato.
Nell’XI secolo, dal punto di vista politico, la valle è vivacissima. I marchesi di Clavesana ne dominano un’ampia porzione, che comprende terre e castelli dalla più prossima Riviera alle Alpi Liguri; alla metà del XII secolo si scontrano con i conti di Ventimiglia, che tentano di estendere il proprio potere nell’entroterra e con il Comune di Genova, che a quell’epoca ha già posto le premesse per la conquista dell’estremo Ponente. L’attuale linea di confine fra le province di Savona e Imperia, che taglia la Valle Arroscia tra Pogli e Ranzo, risulta in un certo qual modo una lontana eco di queste lotte.
In tale contesto storico intraprendenti mercanti, accompagnati da lunghe carovane di muli, partendo dal porto di Albenga si inoltrano nei sentieri più interni per raggiungere gli itinerari europei, facendo crescere in maniera esponenziale le entrate dei signori e dei loro borghi. Schiere di contadini si impegnano a bonificare, coltivare e difendere un territorio non facile da lavorare. Generazioni di artisti decorano modesti templi con arcaici moduli iconografici, a testimoniare un’esistenza frugale, scandita dai ritmi agricoli.
Il graduale miglioramento delle condizioni economiche della popolazione favorì la realizzazione di nuove costruzioni: palazzi nobiliari, edifici religiosi e civili con il conseguente aumento della domanda di manodopera qualificata nella lavorazione della pietra e nella decorazione dei manufatti. Così, nel Quattrocento, a Cènova si forma una scuola di maestri lapicidi dallo stile originale, capace di unire a elementi decorativi di ispirazione classica stilemi medievali e popolareschi. Da alcuni anni la pittoresca località, situata nella valletta secondaria della Giara di Rezzo e conosciuta in passato, poiché posta sul tracciato della Via Marenca (percorso che si snodava dall’entroterra al mare, da cui il nome), che collegava Oneglia alle Prealbe e al Piemonte, è inserita nel circuito Strade di Pietra insieme ai paesi di Rezzo e Lavina.
A un quarto d’ora dall’abitato di Rezzo, in origine raccolto all’ombra del maniero che, appartenuto prima ai marchesi di Clavesana poi alla nobile famiglia Ranieri Grimaldi e in seguito ai Pallavicini, svetta ancora dall’alto, val bene una visita il santuario della Madonna delle Vigne o di Nostra Signora del Santo Sepolcro. Edificato nel 1401 su uno sperone roccioso a dominio dell’alta valle, è un interessante esempio di architettura tardo quattrocentesca caratteristica della Liguria montana. All’esterno è ingentilito da un portico rinascimentale sorretto da colonne in pietra e da un elevato campanile a cuspide ancora goticheggiante. All’interno conserva una suggestiva cripta con una statua di Cristo morto, superbi stalli in monoliti scolpiti e un ciclo a fresco con scene della vita di Gesù, dipinto nel 1515 da Pietro Guido da Ranzo, tardivo continuatore della pittura “dialettale” ligure-piemontese.
Ma tutta la Valle Arroscia è ricca di chiese e chiesette. Oltrepassato Borghetto d’Arroscia, perfetto “borgo su strada”, dopo averne ammirato il bel ponte medievale in pietra, curva dopo curva, immersi tra castagneti lussureggianti incontriamo ai margini della carrozzabile per Ranzo l’austera mole della chiesa di S. Pantaleo, sovrastata dai ruderi del fortilizio fatto erigere dai Clavesana nell’XI secolo a controllo dello spartiacque tra la valle Arroscia, Ranzo e la val Pennavaira.
Tra le più antiche architetture religiose della regione, la chiesa, titolata al santo taumaturgo, fu ampliata nei secoli XIV e XV sui resti di una primitiva cappella di impianto protoromanico (XI secolo), di cui ha mantenuto l’abside. Impreziosita da un portico romanico-gotico, decorato con due portali in ardesia scolpiti nel 1491 e nel 1493, presenta molteplici cicli affrescati, in gran parte riferibili alla bottega di Pietro Guido da Ranzo, a cominciare dal portico esterno con la “Passione di Cristo”, le “Scene di San Pantaleo” e la “Resurrezione di Lazzaro” (1488). Inoltre lavori di recupero condotti al suo interno hanno portato alla scoperta di un’ulteriore serie di dipinti murali attribuiti al Maestro di San Pantaleo (i “Beati”, l’ “Inferno” e la “Cavalcata dei Vizi”, 1507-1508), in cui si riconoscono anche le presenze di Giorgio Guido da Ranzo il Vecchio e del figlio di Pietro Giorgio.
Infatti dalla valle Arroscia proviene una delle più importanti famiglie di artisti del Ponente ligure: i Guido da Ranzo. Ricca di influssi piemontesi tardo-gotici, la loro produzione riflette l’atmosfera di scambi tra Piemonte, entroterra di Ponente e costa ligure. In particolare Pietro Guido, attivo tra il 1490 e il 1532, è considerato il divulgatore di un linguaggio dagli accenti popolareschi, ispirato alle soluzioni diffuse dai fratelli Biazaci e dal Canavesio.
Pochi chilometri separano Rezzo da Vessalico (da vexalium, sottomesso), un centro storico con costruzioni e portali del tardo Medioevo, fondato nel XII secolo da alcuni terrazzani, costretti ad abbandonare le proprie casupole in pietra sparse qua e là tra gli oliveti del fondovalle e a migrare in questo lembo di terra sulla sponda sinistra dell’Arroscia. Nascosta nel silenzio dei boschi e degli ulivi sopra al paese, lungo la strada per Lenzari, c’è la chiesetta di S. Andrea, un gioiello romanico del XII secolo. Raggiungibile percorrendo a piedi un viottolo di montagna, ricavato fra la macchia mediterranea, mostra uno schema architettonico assai semplice: muratura quasi grezza a eccezione del portale di facciata, che ripete il tipo classico ad arco falcato e lavorato con maggiore perfezione, e absidi con piccole monofore strombate e cornice sagomata in tufo. La sua storia millenaria, la sua ardita posizione sul limitare del monte, l’ambiente naturale e l’intimo silenzio che la circondano, permettono di godere l’incanto di emozioni e paesaggi indimenticabili.
Nel 1232, gli abitanti di Vessalico, di Borghetto d’Arroscia e quelli di altre località della vallata diedero vita a Pieve di Teco. Il nascente borgo, collocato nel fondovalle, alla convergenza di alcune delle più importanti strade marenche tracciata tra la marina e le Alpi, avrebbe permesso di trarre vantaggi soprattutto dai traffici commerciali sulla via che, passando per Teco, partiva da Oneglia, toccava Chiusavecchia, raggiungeva il colle di San Bartolomeo, lo superava, scendeva a Vessalico e risaliva a Ormea. Lo schema urbano di pieve di Teco venne completamente trasformato dopo il 1386 quando, scomparsi i Clavesana, la località passò alla Repubblica di Genova.
Dell’epoca medievale la cittadina ha mantenuto la pianta regolarissima, caratteristica dei nuclei insediativi costruiti dai Genovesi, che ha a Chiavari, nell’opposta Riviera, il suo modello principale. L’insediamento, lineare, è scandito da un’ampia strada al centro, su cui affacciano monumentali portici gotici con case in origine a due piani, poi sopraelevate nel Sei e Settecento. Il tessuto urbano appare suddiviso in isolati con abitazioni rinserrate fra i caruggi, come sono chiamati gli stretti vicoli liguri. In passato alcune di esse costituivano le umili dimore di agricoltori, pastori e piccoli artigiani, invece altre erano residenze signorili; quasi tutte posseggono ancora i tetti coperti da grandi lastre grigie di ardesia, dette comunemente ciappe.
Oggi come un tempo Pieve di Teco è il capoluogo dell’intera vallata. A ricordarne l’importante funzione commerciale, connessa alla presenza di valichi per l’alta valle del Tanaro, sono tuttora le numerose botteghe sotto ai portici e il mercatino d’antiquariato, che si svolge nelle ultime domeniche del mese. I villaggi che circondano a raggiera Pieve di Teco risentono di un’economia montana. La stessa architettura si adatta al clima e all’ambiente nella copertura in ciappe, nel maggior impiego del legno in architravi, portali e balconi, nella lavorazione della pietra dura e scura, che ebbe a Cènova la sua scuola e il suo vivaio di artisti.