Esistono solo due compagnie di bus che vanno da Lima a Tingomaria, il prezzo per 24 ore di viaggio è 120 Soles e occorre acquistare il biglietto il giorno prima per essere sicuri di avere il posto a sedere. Al mattino alle sette il bus è già pieno “imballato”, tra i sedili hanno posto dei panchetti dove altre persone si accalcano rendendo l’interno un blocco compatto di corpi pressati. Il bus Volvo si arrampica velocemente sui monti della Cordigliera delle Ande e il clima comincia ad irrigidirsi, anche perché a buona parte dei finestrini manca il vetro e si arriva ad avere piacere di questo groviglio di gente che in qualche modo scalda.

Sono seduto accanto al finestrino e l’aria m’investe gelida. I piedi nei sandali li scaldo tra i peli di un capretto che è legato e immobile sotto il sedile davanti. Quando qualcuno deve scendere lancia un urlo convenzionale all’autista e inizia a spintonare persone e cesti fino a raggiungere la porta; quando invece sale, se non c’è posto resta in piedi vicino al driver. Ad ogni paesino decine di donne e bambini propongono i loro cibi fritti, uova sode e frutta che tengono in cesti appoggiati sulla testa. Girano continuamente attorno al bus, in un carosello che ha fine solo con la nostra partenza. Le soste concepite per andare in bagno sono rare. Stiamo salendo sempre più in alto, con l’avvicinarsi della notte devo chiudermi in me stesso per sopportare meglio il freddo pungente. L’unico conforto è che non durerà in eterno.

Durante la notte abbiamo superato la Cordigliera ed iniziamo a scendere. L’autista mastica in continuazione foglie di coca e, a mio avviso, va fortissimo, sembra non preoccuparsi della stretta striscia di strada sassosa e friabile fiancheggiata da precipizi paurosi. Guardo fuori e non vedo il ciglio della strada ma il vuoto, come essere in aereo, vedo solo burroni. Inoltre, è tutta una serpentina a doppio senso e ad una curva il driver stagna di colpo per evitare un mezzo che ci sfiora di pochi centimetri. A Lima l’amico Mike mi disse che non di rado i bus precipitano e, a riguardo, ricordo di avere letto e visto anche qualche foto sui giornali locali. Continuiamo a scendere verso la giungla e arriviamo a Tingomaria che è mattino presto. Sono contento di poter finalmente scendere e sgranchirmi le ossa. Questo paese è alle porte della selva, nel cuore dell’Amazzonia peruviana, ed ora è il caldo tropicale a farsi sentire. A parte qualche casa in mattoni nel centro, il resto è poco più di un agglomerato di baracche.

Vengo avvicinato da Pablo, un ragazzo che dice di essere disposto ad ospitarmi. Pablo è un meticcio di lontana origine spagnola, i suoi lineamenti sono diversi da quelli degli indios e nonostante la pelle olivastra, che ne testimonia gli incroci, conserva i caratteri somatici tipicamente europei. È un tipo tranquillo a cui piace fumare e conoscere gente nuova, vive con i genitori in una casetta di legno a due piani e il piano superiore è riservato a lui. Per il proseguo del viaggio, Pablo mi dice che l’autobus per Pucallpa c’è solo due volte la settimana, la strada è orribile e il prezzo del biglietto è 150 Soles, “trattabili”. Nel pomeriggio inizia a piovere. Vado ugualmente a prenotare il posto per il prossimo bus che parte dopodomani e contratto sino ad avere il biglietto per 130 Soles. L’impiegato spiega: “Il viaggio dura altre 24 ore, se voglio spendere ancora meno è possibile, basta restare in piedi”. Sono stato fortunato perché ho preso l’ultimo posto a sedere libero rimasto.

Trascorro due giorni in compagnia a bighellonare in giro con Pablo ed i suoi amici che sembrano gradire la mia presenza. Tutti quanti conoscono bene la foresta, loro ambiente naturale, e il comportamento di parecchie tribù che la abitano. Come veri antropologi raccontano le loro esperienze che mi interessano tantissimo. Esaltano le tribù degli Yine e dei Mascopiro che abitano più a nord, in zone molto remote lontani da tutto e da tutti.

Saluto Pablo e salgo sul bus per Pucallpa. In corsia non hanno sistemato le solite assi che da un sedile all’altro formano un panchetto, questo per fare stare in piedi più passeggeri a tariffa ridotta. Quelli in piedi in genere fanno dei tratti di qualche ora e poi scendono. A parte il sole che in certe angolazioni strina la pelle, il fatto di essere di nuovo seduto accanto al finestrino mi fa piacere perché è comunque ventilato senza il freddo delle Ande, tuttavia, il sentiero che seguiamo attraversa la foresta è in terra battuta, pieno di grosse buche e ad ogni buca il pantano arriva fino ai finestrini e dentro al bus. I sobbalzi e gli spruzzi di fango non cessano neppure durante la notte da rendere il viaggio particolarmente pesante.

A Pucallpa la gente è già più svestita che a Tingomaria e l’atmosfera ha più del selvaggio. I negozi sono forniti di cibi in scatolette arrugginite e i biscotti sanno di sapone. La mancanza di luoghi freschi dove conservare i cibi rende tutto rancido, alcuni pezzi di carne nera piena di mosche sono esposti all’esterno sotto il sole, ma a loro piace così. In lingua quechua “puka halpa” significa “terra rossa” ed è il secondo maggiore centro abitato dell’Amazzonia peruviana, dopo Iquitos. Importante porto fluviale e sede di numerose imprese per il taglio e il commercio di legnami. Questa città ha vissuto un notevole incremento a partire dal 1945, quando è stata collegata alla capitale Lima attraverso il completamento della Carretera Central.

Da qui a Yarina Cocha c’è un bus per 3 Soles, mi dicono che ci si può comunque arrivare anche a piedi seguendo un sentiero che costeggia il fiume Ucayali, uno dei principali affluenti del rio delle Amazzoni. Le sue acque, ricche di sedimenti, formano numerose anse, meandri e isole fluviali. Il fiume è navigabile per gran parte del suo corso e svolge un ruolo essenziale per il trasporto e la comunicazione delle comunità indigene e rurali che abitano la regione amazzonica. Stanco di autobus, imbocco il sentiero ombreggiato che s’immerge nel fitto della vegetazione e mi avvio a fare questi sette chilometri. Mi fermo spesso a riposare sulla riva, incontro indigeni che mi osservano incuriositi e mi salutano voltandosi più volte. Passo accanto a piccoli abitati dove la gente esce dalle capanne per guardarmi. Da uno di loro imparo che Cocha in lingua locale significa laguna. Laguna formatasi da un meandro del fiume Ucayali. Questa laguna è circondata dalla foresta, e offre un luogo ricreativo agli abitanti della città.

Giungo a Yarina un po' disfatto, anche per la notte passata insonne. Chiedo dove posso trovare alloggio e mi indicano la signora Gladys che si trova ad “una quadra” dalla chiesa. È una casa in legno a due piani con illuminazione elettrica e la stanza che affitta è al primo piano, meglio di quella a pianterreno, arredata con solamente un’amaca. La casa è ben tenuta, pulita, forse la migliore della zona e nel caso io intenda sostare a lungo la signora chiede 300 Soles al mese, sempre ovviamente trattabili. Trovarla è facile poiché è l’unica costruzione a due piani e di colore verde. Gladys è simpatica, mi permette di prendere l’acqua dal pozzo anche se, essendo l’unica del quartiere ad avere un pozzo, già molta gente si serve di lei.

L’abitato di Yarina è sistemato in modo piacevole, rifornito da mercanzie portate da barconi che giungono ogni giorno dal fiume. Al molo noleggiano barche a motore per visitare la laguna e i dintorni, con le rive popolate da indigeni della tribù Shipibo, raggiungibili via terra o affittando un’imbarcazione. Qui, il barcaiolo di nome Luis mi convince ad andare a San Francisco, un villaggio abitato dagli indios Shipibo che vivono su palafitte lungo il fiume ad un’ora e mezza di lancia a motore. Dei 40 Soles che chiede ne accetta 30. In genere chiedono dai 10 ai 20 Soles a persona, ma sono solo e devo pagare di più. Oltre a queste barche motorizzate, c’è pure un servizio diario di barconi che fanno lo stesso percorso in entrambi i sensi senza però un orario preciso: bisogna attendere alla mattina sulla riva sino a che non passano. Giunti al villaggio dei Shipibo, Luis dice che può anche aspettarmi purché mi sbrighi e paghi un piccolo extra, ma io voglio fermarmi almeno un paio d’ore e pure lui preferisce fare altri giri e ripassare più tardi.

I bambini mi corrono incontro agitando le braccia in segno di saluto e le donne mi mostrano delle belle gonne di pelle dipinte con i disegni particolari della tribù al prezzo di 50 Soles. Sono tutti molto ospitali, mostrano i loro manufatti ma senza insistere troppo. Per accontentarli compro alcune collane. Lego con quello che tutti chiamano “il maestro”, non perché abbia strani poteri, ma perché è l’unico nella zona ad avere il diploma da maestro e per questo è molto conosciuto e rispettato anche nei villaggi circostanti. Si chiama o si fa chiamare don Inti, che spiega essere il nome Inca del dio del sole. Infi lamenta la totale mancanza di assistenza: “L'aspettativa di vita nei villaggi nativi dell'Amazzonia, come gli Shipibo, è inferiore alla media delle città della giungla. Ciò è dovuto alla mancanza di un'adeguata copertura sanitaria”. Mi mostra la sua casetta e dice che ha una stanza vuota nel caso volessi restare. Anche se si può facilmente trovare ospitalità in capanne o palafitte, Inti ha una tacita precedenza poiché tutti sanno che a lui piace mostrarsi in compagnia di bianchi, questo aumenta il suo prestigio di uomo colto e di conseguenza sarà più stimato, rispettato e pure temuto. Arriva Luis a prelevarmi e torno a Yarina.

Il mattino dopo decido di passare un’altra giornata con i Shipibo e di fermarmi anche per la notte. Metto in una piccola borsa un paio di scatolette arrugginite, del pane e vado al molo a contrattare il passaggio a San Francisco con Luis. Oggi però non sono solo, faccio il viaggio con altri passeggeri e pago 10 Soles come tutti gli altri. All’arrivo mi presento a casa del Maestro Inti il quale, contento di ospitarmi, mi porta a passeggio in giro perché tutti ci vedano insieme. Conosce lo spagnolo e ci capiamo benissimo, mi parla di certe sue teorie sull’evolversi della cultura spagnola in Sud America e di come qui sia stata deformata dalle esigenze del luogo, ma a distanza di anni si sia poi re-intrecciata e per farmi capire meglio raccoglie un rametto e traccia sulla sabbia una linea retta che sta a rappresentare la cultura spagnola che ha sempre seguito il suo percorso linearmente e, alla base di questa, traccia un semicerchio che a tre quarti della linea retta si incrocia con la stessa. A questo punto il maestro si blocca e mi fissa serio negli occhi affermando: “È qui che si sono incrociate le due culture!”. Quando Inti sale in cattedra, sia per la mimica che per i prilli di cervello, è davvero uno spasso: “Ne sa una più del diavolo”.

Nel pomeriggio due giovani Shipibo vogliono farmi vedere il loro sistema di pesca con asta e rete. Mi prestano una canoa e ci avviamo su tre canoe diverse, ognuno con la propria, per provare a pescare assieme, ma sono troppo eccitato dall’avere una canoa tutta per me che abbandono la pesca e coinvolgo tutti in spassose gare di corsa a remi. La sera accendono puzzolenti lampade a petrolio e le zanzare partono all’attacco. Ovviamente non esistono zanzariere poiché la pelle degli indios è una scorza dura e non hanno problemi. Gruppi di indios vanno in riva al fiume a conversare serenamente e poi a letto presto.

Al mattino saluto il simpatico Inti e mi apposto in riva al fiume ad aspettare che passi qualche lancia, assieme ad un piccolo gruppo di Sipivos che vengono in paese per fare provviste. Finalmente si ferma una grande chiatta a barcone ed arrivo a Yarina che è mezzogiorno. Dopo aver mangiato pesce fritto di fiume con contorno di patate in un ristorantino di nona categoria, insisto con il molo. Questa volta sono curioso di perlustrare l’isolotto al centro della laguna. Luis avvia il motore e raggiungiamo l’isola in pochi minuti, la giriamo lentamente seguendo la costa e resto stupito, non poco, nel vedere tra il verde un hotel di lusso. Imparo così che l’intera isola è una proprietà privata e vi possono accedere solo i clienti dell’hotel che giungono in gite organizzate, in aereo da Lima. Osservo l’isola come un avamposto nemico. Come europeo non avrei difficoltà a superare lo sbarramento delle guardie anti-Indio e darci un’occhiata, magari per fare scorta di carta igienica dai loro bagni, ma non attracco perché perderei troppo tempo e a Luis non va di aspettare.

Torno in paese e chiedo informazioni alla signora Gladys sulle possibilità di scendere il fiume in barca fino a Iquitos: “Ce ne sono parecchie che ci vanno, bisogna rivolgersi alla capitaneria di Pucallpa”. Al mattino sono a Pucallpa, trovo la capitaneria vicino al mercato. Dentro, su una lavagna sono elencate le date d’arrivo e di partenza dei battelli che nei prossimi giorni dovrebbero toccare questo porto, ma le date non sono rispettate. Il funzionario me la racconta così: “In verità, non si sa mai quando arrivano e partono. La soluzione più economica per Iquitos è una nave militare chiamata Caqueta, costa 300 Soles a persona, incluso il cibo. È importante munirsi di un mosquiteros, un’amaca, piatti, bicchieri e posate perché la nave ne è sprovvista. La migliore nave per Iquitos, solamente passeggeri, è la Santa Rosa che costa 500 Soles e il viaggio dura cinque giorni, ma chissà quando c’è”.

Due giovani al porto mi dicono che si può anche viaggiare in canoa: “Un robusto tronco scavato che può trasportare anche dieci persone e costa 8-10 mila Soles. Le guide sono disposte a seguire i fiumi interni per un periodo di due mesi e come compenso chiedono di tenersi la canoa che servirà loro per brevi spostamenti. Ma è possibile anche esplorare l’interno, scovando i villaggi più nascosti, muovendosi con barche di villaggio in villaggio, ma occorre tempo e attrezzatura”. Insomma, per chi lo vuole fare, ci sarebbe da sguazzare per anni su e giù per i corsi d’acqua dell’Amazzonia. Chiedo ai ragazzi quando arriverà la nave militare che va al nord e rispondono che è già attraccata. Guardo in giro ma non la vedo. Allora mi indicano una grande chiatta a motore in ferro arrugginito che chiamano “nave”. La raggiungo, salgo sulla passerella e mi presento al vecchio e disfatto capitano che è intento a controllare le operazioni di carico e scarico della merce. Non ci sono problemi, il prezzo è quello giusto, la chiatta parte domani verso mezzogiorno.

Poiché oltre Pucallpa inizia la zona malarica, vado al centro antimalarico vicino al porto dove mi regalano delle pastiglie di Daraprim, devo prenderne una a settimana e butto giù la prima. In farmacia compro del Enterobioform contro la dissenteria e del disinfettante per l’acqua. Acquisto poi qualche scatola di biscotti, il vettovagliamento, la zanzariera e un’amaca di filo di cotone acrilico che si avvolge diventando una piccola palla. Sono pronto e carico per continuare il viaggio via fiume. Al mattino saluto la signora Gladys, vado puntuale al molo di Pucallpa, ma solo alle 16 i militari staccano gli ormeggi e ci allontaniamo lentamente. Iquitos dista 1100 chilometri. Questo tratto fluviale è uno dei più suggestivi e biodiversi dell’intera Amazzonia peruviana. È navigabile tutto l’anno, e rappresenta l’unico collegamento diretto via fiume tra le due città, in una regione dove non esistono strade asfaltate continue. A poppa sono state agganciate altre due mega chiatte trainate dalla Caqueta, cariche di pacchi e di auto. Caricano anche automobili perché ad Iquitos e dintorni si può girare in auto.

Questa chiattazza è tutta sporca di morchia e per niente confortevole. Trovo un punto appartato tra casse, cime, e tubi dove sistemo l’amaca. Viene l’ora del rancio e a parte la brodaglia che funge da primo, il resto, pesce fritto e riso, è passabile. Il menù alterna sempre riso con pollo e spezie avvolto in foglie di bijao, purè di platano con carne affumicata e il paiche, uno dei più grandi pesci d’acqua dolce al mondo. Le uniche bevande sono il tè e il caffè e i piatti si lavano con l’acqua del fiume. La luce del giorno si affievolisce, monto anche il mosquiteros e mi corico dondolato da una leggera brezza. Il rumore del motore non è troppo forte e nemmeno il fruscio dell’acqua mi disturba. Passo il tempo tendendo gli orecchi ai diversi suoni e ai gorgheggi d’uccelli che mi arrivano dalla costa ricoperta da un fitto verde impenetrabile.

Il primo pasto viene servito alle sei del mattino, orario un po' insolito ed occorre tempo per abituarsi. Il viaggio dura sette giorni ed è monotono ma anche il fiume, come la foresta, è ricco di vita ed una volta entrati nel dovuto ritmo non è poi male, si passa una settimana della propria vita in assoluta pace. Capita spesso di costeggiare villaggi, incrociare chiatte e barche che avanzano spingendosi con lunghe pertiche sul fondale basso. Superiamo la cittadina di Orellana senza fermarci e questo mi dispiace, una sosta mi avrebbe fatto piacere. Passiamo tra migliaia di strettoie dove le palme si appoggiano sul rio Ucayali che diventa larghissimo quando nei pressi di Nauta si unisce al rio Marañón e si entra nel rio delle Amazzoni.

Mi dicono che da qui mancano ancora 125 chilometri, ormai ci siamo. Ogni tanto alcune canoe si affiancano e i rematori scambiano qualche parola con il capitano. L’anziano capitano si chiama Ramon, per la gente dei fiumi guidare una chiatta o un battello non è solo un mestiere, un capitano è una figura mitica, parte della cultura fluviale, con un carattere tutto suo, forgiato dalla vita sull’acqua e dalla selva. Passo le giornate a parlare con i militari e a contemplare ipnotizzato le folte sponde, ce la metto tutta per stare calmo e cercare di godermi questa avventura. Lo spazio dove muoversi sulla chiatta è troppo limitato e arrivo a Iquitos carico di energia da spurgare.