C’è una poesia nascosta nei tagli dimenticati, quelli che un tempo riempivano le tavole delle nostre nonne e raccontavano storie di campi e cortili. Sono i tagli poveri, quelli che richiedevano pazienza e sapienza, che nascondevano sotto strati di muscoli tesi e membrane coriacee un sapore profondo, capace di parlare di terra e sacrificio. Oggi, molti di questi tagli sono stati quasi dimenticati, spazzati via dalla frenesia della modernità, dove tutto deve essere rapido, tenero, immediato.

In questa corsa al facile, spesso si compra carne senza sapere davvero cosa si sta scegliendo. Un taglio magro e tenero, pensato per una cottura breve, viene trattato come se fosse adatto a una lunga brasatura; o al contrario, un taglio ricco di tessuto connettivo e grasso, come il contrattino, viene cucinato troppo velocemente, e quando la carne risulta dura, la colpa viene data al macellaio o alla qualità degli allevamenti. In realtà, è la mancanza di conoscenza a penalizzare la carne, un errore che limita l’esperienza di sapore e l’apprezzamento della tradizione.

Il peposo dell’Impruneta: storia e muscolo

Prendiamo il Peposo dell’Impruneta, un piatto antico toscano nato dalla gamba anteriore del bovino, proprio sopra il garretto. Questa parte, ricca di tessuto connettivo, racconta la storia del lavoro faticoso nei campi, di muscoli tesi dal peso delle stagioni. Io sono nato a dieci minuti dall’Impruneta, dove questo piatto è quasi un rituale. I fornacini, maestri della terracotta, cuocevano questo stufato nelle loro fornaci, lasciando che il calore fondesse carne, pepe nero e vino rosso in una sinfonia di sapori intensi e spigolosi, come la terra che lo ha generato.

Il segreto è nel tessuto connettivo: durante la lunga cottura si trasforma in collagene, sciogliendosi lentamente e dando corpo e profondità al sugo. È un processo lento, che richiede pazienza e tempo, ma il risultato è una carne succulenta e morbida, intrisa di sapori antichi. Nei miei corsi di macelleria insegno che ogni taglio ha il suo valore, ma deve essere cucinato nel modo giusto e con i tempi giusti per dare il meglio.

Frattaglie e tagli dimenticati: un’antica tradizione

Quando mio nonno allevava maiali, nulla andava sprecato. Le frattaglie, tanto ambite in Toscana, erano una festa per il palato: il fegato, la coratella, le cotenne avevano un posto d’onore nelle nostre ricette di famiglia, preparate con tempo e rispetto. Le cotenne, ad esempio, arricchivano minestre robuste come il lesso rifatto, conferendo profondità e sapore.

Ma spesso oggi questi tagli non vengono scelti perché, nella confusione del mercato, la gente si limita ai soliti pochi tagli: bistecca, filetto, fettine magre di noce o sottofesa, pensati per una cottura rapida e leggera. Il risultato? Carne senza carattere, che delude e fa perdere interesse verso preparazioni più complesse. Nessuno più ha il tempo o la pazienza di brasare un pezzo di spalla come in Piemonte o una punta di petto come tra Parma e Piacenza, tagli che invece esprimono tutto il loro sapore proprio con il tempo e il fuoco lento.

La lingua e l’ossobuco: tesori rari

Tra i tagli dimenticati c’è anche la lingua, usata in varie cucine regionali, capace di donare sapori intensi e una consistenza unica. In Piemonte, la lingua bollita è accompagnata dal bagnet verd, una salsa verde profumata che ne esalta il carattere.

L’ossobuco, ricavato dal geretto del bovino, con il suo midollo, è un altro esempio di taglio povero valorizzato dalla lunga cottura, dove il collagene si scioglie in una morbidezza che si scioglie in bocca. Servito con risotto allo zafferano, è una lezione di tradizione e pazienza.

Il suino e i suoi tesori dimenticati

Il suino racchiude un tesoro di tagli poco usati oggi. La testa, da cui si ricava la coppa di testa o il soppressato, ha un aroma intenso e selvatico che parla di un mondo dove niente andava sprecato. I ciccioli erano una gioia invernale, carne grassa pressata e ancora calda, mentre le gallinelle, piccoli pezzi di collo, erano bocconi prelibati e saporiti.

L’arte della cucina lenta

Riscoprire questi tagli non è solo un atto di gastronomia, ma di memoria. È ricordare che ogni parte di un animale ha un valore, che ogni fibra di carne porta con sé il racconto di una vita e di una terra. È un invito a cucinare lentamente, a respirare gli odori di una cucina che sa di legna e ferro, di mani forti e gesti sapienti.

Perché la carne non è solo proteina: è un alfabeto antico, fatto di muscoli, ossa e cuore, che aspetta solo di essere riletto.

E la macelleria? È un luogo di poesia. Tra i coltelli e i banconi si cela un rispetto antico, quasi sacro, per l’animale e per chi lo ha allevato. Ogni taglio è una storia, un pezzo di vita trasformato dalla mano esperta del macellaio, che con pazienza e conoscenza restituisce dignità alla carne. È un mestiere di mani forti e occhi attenti, di silenzi e racconti, che insegna a guardare oltre l’apparenza e a valorizzare ciò che spesso viene dimenticato.