È giunto il momento di lasciare Koundara, riempiamo il serbatoio della Guzzi. Valentina e Nando salgono sul Land Rover, in cabina con il driver, mentre noi due andiamo avanti in motoguzzi, con Franco alla guida poiché a casa possiede una moto simile ed io non sono mai stato un motociclista. Tambacounda dista 250km via Vilingara, ma poi la destinazione finale di tutti è Dakar a 720km. Partiamo alle 17, col fresco, assieme ad altri camion carichi di gente che preferisce la notte per spostarsi. Ovviamente noi andiamo molto più veloci di tutti, con l’accordo di attendere il Land Rover alla frontiera. Dopo 14 chilometri di pista in terra battuta giungiamo a Sambailo e poco dopo ci fermiamo a un bivio. Non ci sono cartelli. La pista che prosegue dritto continua ad essere discreta, mentre quella che va a sinistra è un acquitrino.

Un omone, che scherzosamente chiede la moto in regalo, ci indica di proseguire dritto. Troviamo la dogana deserta e tutto spento. Aspettiamo l’arrivo del Land Rover per una, due, tre, quattro, cinque ore senza vedere nessuno. Infine, si presenta un doganiere, dal quale apprendiamo che oltre questo valico di Boudou Fourdou, in territorio senegalese, il percorso è talmente brutto che solo i camion riescono a passare. Abbiamo dato per scontato che ci fosse solo un valico di frontiera, ora sappiamo che ne esiste un altro e per certo abbiamo sbagliato frontiera. Torniamo al bivio, ad una manciata di chilometri, e vediamo che due camion diretti a Tambacounda prendono la pista verso ovest, quella in pessime condizioni che in una ventina di chilometri conduce alla dogana di Missira. Pare che questa via sia difficoltosa, ma è comunque la meno peggio.

Sono le 22:40. Imboccata questa pista ben presto ci accorgiamo di essere entrati in un percorso infernale, pieno di tratti allagati di varie misure, profondità e forme da superare, valutando di volta in volta come affrontarli. Ci si mette sul secco, si accelera il motore e Franco parte a razzo con la moto che sguizza e a volte affonda nell’acqua di oltre mezzo metro ma continua miracolosamente a funzionare. Lo seguo a piedi, per non appesantire il mezzo. A volte Franco coglie l’attimo del tratto da superare e scappa via lasciandomi nel buio pesto della giungla per centinaia di metri. Il rosso del fanalino di coda sparisce e mi metto ad urlare il suo nome incazzato perché non vedo neppure dove poggio i piedi.

Mi assalgono attimi di panico, qui si rischia infezioni e malattie. Un percorso incredibilmente massacrante tra acquitrini imputriditi dove, infine, scivolo e cado immerso fino al collo in una buca d’acqua profonda. Per fortuna, col braccio sinistro alzato riesco a salvare la macchina fotografica. Raggiunto Franco, vediamo una quantità di camionette piantate nella melma e visioni degne di gironi danteschi, con persone stremate dalla fatica e dalla miseria, che mangiano l’erba nella speranza di cacciare la fame. Siamo certi che Nando da solo non sarebbe riuscito a superare questi impervi chilometri d’acqua e fango.

Sabato 11 agosto

Alle 7 raggiungiamo la dogana di Missira distrutti dalla fatica, completamente bagnati, pieni di fango e freddo. La dogana è formata da capanne abitate dalle famiglie dei doganieri, tutti molto curiosi della nostra presenza. Siamo bianchi e ci trattano con riguardo. Da quando hanno aperto la frontiera, un anno fa, dicono di avere visto una coppia di tedeschi ed una di francesi ma nella stagione secca, nessuno durante il monsone. Per fortuna sono tre giorni che non piove, diversamente sarebbe stato impossibile arrivare qui. Missira è un valico nel mezzo del nulla, esattamente nel punto in cui i confini di tre paesi si toccano: Guinea Conakry, Guinea Bissau e Senegal.

Ci fanno sistemare nella capanna del doganiere capo di nome Lasdan Boior, col grado di maresciallo. Ci togliamo gli abiti fradici di fanghiglia, li laviamo e restiamo in camicia e mutande, capiscono la situazione e nessuno si scandalizza. Non abbiamo da cambiarci essendo i nostri zaini sul Land Rover che arriverà oggi, speriamo. Inoltre, cosa più grave e degna di preoccupazione, scopro di avere il corpo completamente tumefatto, deformato dalla testa ai piedi a causa dell’acqua putrida della palude. Qui non hanno specchi, mi tocco la fronte e la sento rigonfia, così come le braccia, le gambe e tutto il corpo.

È da Gabù, martedì scorso, che non ci guardiamo in uno specchio, vorrei dare un’occhiata al viso, alla barba lunga, ma in Guinea Conakry non abbiamo visto specchi, neppure nell’hotel a Koundara. Nella capanna, piena di bambini che ci scrutano in silenzio, hanno acceso il fuoco per scaldarci e asciugare i nostri abiti. Sono poveri ma vitali, ci offrono del caffè e del cibo e Diana, la moglie di Lasdan, ci offre pure la figlia purché qualcuno sia disposto a sposarla. Beviamo molta acqua del loro pozzo, “speriamo bene”. L’autista di un furgone ci avvisa che il Land Rover è partito molto dopo di noi e si sono fermati a Sambailo per la notte.

Avevo battezzato la forsennata marcia di 37 chilometri da Camajaba a Soreboido la cosa più hard e massacrante che avessi mai vissuto, non immaginavo che a distanza di un giorno ne avrei vissuta un’altra ancora più estrema. La notte scorsa, in un breve riepilogo posso affermare di non avere mai neppure immaginato una situazione così pesante vissuta da questa gente come fosse la normalità. Abbiamo visto tre gipponi impantanati, pieni di persone ricoperte di melma fino ai capelli a spingere il mezzo per chilometri con le gambe nell’acqua e nel fango in una fatica immane. Vedere le luci dei mezzi assieme al vociare della gente affannata nel buio della foresta sembrava davvero di essere immersi in un girone dantesco. Abbiamo visto adulti e bambini, con la pancia gonfia dalla denutrizione, strappare l’erba dal suolo e infilarsela in bocca, una visione orrenda da non sembrare neppure terrena.

Non eravamo stanchi per la notte in bianco, l’adrenalina non lo consente, ma per l’enorme sforzo al limite della sopportazione, al punto che Franco aveva pensato di mollare la moto in mezzo alla giungla e venire in dogana a piedi. Franco è stato straordinario, caparbio, risoluto nel gestire il mezzo e la situazione con coraggio, sacrificio e intelligenza. Alla fine, questa esperienza è stata utile nel mostrarci dal vivo una realtà distante da noi, come un “viaggio nell’altro mondo”.

Siamo sdraiati su un’amaca nell’aia della famiglia Boier, in attesa che si asciughino gli abiti. Se la gente mangia l’erba, anche le capre non scherzano, le osservo mentre ingoiano carta, cartone ed anche una bottiglia di plastica. Tutti ci salutano stringendo la mano, consuetudine in uso nei paesi francofoni. È brava gente, povera ma serena, si aiutano l’un l’altro volentieri, un po' come i nostri nonni. Uno di questi racconta di un francese che si è indebolito per il troppo affaticamento, è stato ricoverato in ospedale ed è morto per infarto. Episodio che fa riflettere. In effetti, basta un errore di valutazione sulle distanze ed una volta finiti nel mezzo di un percorso si è costretti a portarlo a termine in un dispendio di energie preventivamente non considerate.

Passiamo ore a giocare con i figli di Lasdan ed i bambini di questo minuscolo gruppo di capanne isolate da tutto. Anche Franco, scarico dalla fatica del viaggio, ora gioca, scherza, si diverte e poltrisce tranquillo nell’amaca. Figli, figlie e tutti sputano sparando schizzi tra i denti tutt’attorno. È arrivato il momento delle fotografie, in bianco e nero, e degli indirizzi, incarico più impegnativo in quanto nessuno dei figli sa scrivere. Mi segno: Hesyni Boier, Homar Boier e la madre Diana Bu Bandi, tutti c/o Poste Restante, Koundara. Il maresciallo Lasdan, nel caso specifico, è l’unico che prende la penna e di suo pugno scrive: “Ajudant Boier, Agent eu Service de sons Prefecture de Koundara”.

Verso le 16 arriva a piedi in dogana il primo del gruppo di passeggeri del Land Rover, si chiama Fode. Dice di andare incontro in moto a Valentina, Nando e Leonard perché il Land Rover si è rotto a dieci chilometri dalla dogana e tutti stanno arrivando a piedi. Da qui, spiega: “Sono 5 km asciutti e 5 km in acqua, Franco li devi aspettare al bordo dell’acquitrino in mezzo alla palude”. Franco, attivissimo, fa la spola a caricare Valentina e gli altri. Nando e Leonard sono stati talmente altruisti da aiutare Valentina a portare i nostri bagagli e lasciare i loro sul Land Rover. Ora però bisogna andarli a prendere e ne segue una discussione a non finire con un altro autista, che per tornare al Land Rover prima chiede 1200 CFA e dopo 6000. Allora riprendiamo i soldi e lo mandiamo a quel paese.

Domani, Franco porta uno bravo al limite della zona allagata e questi va a prendere i bagagli a piedi per 1000 CFA. Arriva in dogana il driver a prendere degli attrezzi per vedere di aggiustare il Land Rover. Appena si presenta, viene accusato da tutti i passeggeri per l’ottusa avidità nel voler caricare troppa gente su un veicolo che cade a pezzi. Valentina lamenta che per prendere più soldi voleva far stare ben sette persone nella cabina di guida. Alcuni protestano facendo appello ai diritti umani: “Non siamo bestie da carica”. Tutti concordano che la rottura era prevedibile essendo stracarica di gente. Bene, personalmente mi fa piacere vedere che la gente comune, in genere con un alto limite di sopportazione e portata a subire senza fiatare, si ribelli.

Vogliono essere rimborsati dei soldi pagati per il passaggio interrotto. Hanno tutti pagato fino a Tambacounda ed ora devono arrangiarsi con mezzi di fortuna, una truffa! Da questa situazione nasce una sceneggiata africana davvero divertente. Il driver si finge disperato, quasi piange, confessando di guidare senza patente. Racconta che ieri, prima di partire, la polizia gli ha chiesto i documenti ed essendone sprovvisto gli avrebbero fatto una multa di 25.000 Sily che ha pagato con i nostri soldi. Pertanto, ora è completamente al verde e non può rimborsare nessuno. Nessuno ci crede, viene aggredito da maledizioni in tutte le lingue. Il danno economico per noi è minimo, appena 1500 Sily, ovvero 6 dollari, mentre quello fisico è enorme per la fatica fatta e per quella che ancora dovremo fare noi e questa povera gente. Ma l’Africa è anche questo, se no dovevamo stare a casa.

Alla sera, nell’aia della famiglia Boier, viene offerta la cena ai soli stranieri bianchi, classificati come turisti. È un unico piatto composto da riso e carne con sugo solo per la famiglia e noi quattro. Tutti gli altri stanno attorno a guardare, ovvero una ventina di visi mogi, stanchi e affamati: troppo imbarazzante. Un ragazzino sui 12 anni mi ipnotizza con lo sguardo perso nel vuoto, piange per la fame e gli passo il piatto. Non ho saputo resistere. Fatto che ha fatto arrabbiare il maresciallo: “Ad accontentarne uno si fa comunque un dispetto agli altri e non si può accontentare tutti”. Vorrei dirgli di mangiare in casa da soli o quando non c’è nessuno che ti osservi con la bava alla bocca.

Si unisce al banchetto pure Leonard perché è un funzionario erudito e perché ha comprato un pollo vivo da cucinare e mangiare assieme come secondo. Quando il pollo è ben cotto e diviso in porzioni, osservo Leonard che mangia con foga, incurante di chi gli sta attorno. Allora capisco che qui le cose sono diverse e funzionano diversamente. A fine pasto, i bambini figli di Lasdan invitano Valentina e me a dormire nella loro capanna. Dopo notti in bianco e la previsione di averne altre simili, potersi coricare al coperto è un lusso da apprezzare. Nando e Franco dormono fuori. Certo, senza la miriade di zanzare si starebbe meglio.

Domenica 12 agosto

Ancora prima dell’alba i galli entrano nella capanna e iniziano ad urlarmi nelle orecchie ma sono talmente stanco che continuo a dormire. Franco intanto è partito in moto ad accompagnare l’uomo che, come da accordo, va a prendere i bagagli di Nando e Leonard lasciati nel Land Rover. Diana offre solo a noi tre, come sempre, del buon yogurt africano. Lo fa perché è generosa, ma anche perché spera e si augura che un giorno uno di noi gli mandi dei soldi o delle cose utili. Lo ripete spesso.

Col ragazzino al quale ieri gli ho passato il cibo siamo diventati amici. Racconta di venire da Labè, la seconda città del paese situata nel centro della Guinea. Per arrivare a Koundara, distante 270km, ha impiegato due settimane per la strada molto brutta, interrotta anche dal crollo di intere colline. La narrazione del tipo di percorso e la scena delle auto spinte nel fango credo sia una costante alla quale qui tutti sono rassegnati. È lo stesso percorso che ha seguito Nando impiegando dieci giorni e cadendo tre volte. L’ultima è quella dell’incontro con Keita alle porte di Koundara.

Un altro passeggero che era sul Land Rover è arrivato in dogana, il quale aggiunge un dettaglio che conferma i dubbi di tutti: “Non è vero che il driver ha preso una multa ma è comunque vero che non ha soldi, il denaro dei passaggi lo tiene il boss a Koundara, lui è solamente un autista”.

Si torna in Senegal. Salutiamo la famiglia Boier, la marea di giovani mamme e di bambini, infinitamente grati per l’accoglienza, il riso, la carne, il caffè e l’ospitalità gratis: bravi. Regalo ai bimbi il coltello milleusi tipo svizzero, un elastico con ganci e 205 Sily che ormai non servono più. Chiedono di inviargli le foto, ma per il genere di servizi che hanno bisognerebbe tornare a portagliele di persona. Il poliziotto ci timbra l’uscita dal Paese sui passaporti senza neppure accorgersi che il nostro visto è scaduto da giorni. Missira è il valico di frontiera più gradevole e umano che abbia mai attraversato. Il ricordo della Guinea Conakry sarà per noi un misto di sofferenze e valide esperienze.

Franco accende di nuovo il motore della motoguzzi che manovra agilmente: finge di fare fatica ma io so che si diverte. Questa mattina ha risolto il problema del recupero bagagli ed ora fa avanti e indietro per tre volte dalla dogana di Missira a quella senegalese di Jalanjalan distante 12km. Prima porta Nando, poi Leonard e infine Valentina e me. Ad ogni viaggio percorre 24km per un totale di 72km. Al distributore di Jalanjalan mettiamo 10 litri di benzina, il conto è 3500CFA. Nando ne allunga 4000 al benzinaio e gli lascia i 500 di mancia. Restiamo basiti: sono gli ultimi denari e li gestisce in quel modo? Pare che fatichi a realizzare ciò che lo circonda.

Leonard confida di percepire 10500 Sily al mese, pari a 42 dollari, un buon stipendio per gli standard locali, lo stesso che percepiva Keita. Siamo appena entrati in Senegal e non abbiamo CFA, coinvolgiamo Leonard ad anticipare dei soldi a Nando sotto la nostra garanzia perché di lui non si fida, teme i suoi “colpi di testa”.

Franco ed io partiamo alle 17 in moto diretti a Kounkane per avvisare che qui a Jalanjalan ci sono più di venti persone che aspettano un mezzo per raggiungere Tambacounda. Per il doganiere Kounkane dista 62km. La pista continua ad essere in pessime condizioni, obbligando a procedere lentamente e a zig-zag per aggirare un’infinità di ostacoli, poi finalmente torna l’asfalto, la civiltà. Giunti al villaggio di Kounkane, il contachilometri indica 78km fatti. Ci accordiamo con l’unico autista presente di andare a caricare Valentina, Nando e Leonard, il quale assicura che andrà domani mattina perché ormai è tardi. In questo paesino non ci sono banche.

Le priorità ora sono due: trovare una banca e curare la mia sospetta infezione del sangue. Franco ha le stesse protuberanze però in modo minore, lui non è caduto in quella buca d’acqua fetida fino al collo. Nel sedile accanto al taxista, vediamo una copia del settimanale l’Osservatore Romano in lingua francese indirizzato alla missione cattolica di Velingara. Impariamo così che ad una trentina di chilometri si trova una missione di padri francesi ai quali chiedere aiuto. Muoversi agilmente in motocicletta per il Senegal è tutto sommato molto piacevole, a parte la scomodità del sedile Enduro che obbliga ogni tanto a fermarsi per riposare dal dolore al sedere: non è una moto per due.

Eccoci alla missione. Padre Rodrand, una persona schietta e concreta, ci accoglie senza tante domande o giudizi. Ascolta i nostri commenti e si adopera per risolverli. Ci assegna una camera, laviamo i vestiti infetti e facciamo non una ma due docce. Prepara poi una tazza di latte in polvere con acqua calda e pane e disinfetta i bozzi e le ferite. Infine, ci fa ingerire degli antistaminici senza mai pretendere un grazie. Padre Rodrand abita questa casa da 27 anni ed è abituato ad aiutare persone. Per noi è un altro uomo giusto al momento giusto.

Sente che usiamo l’amuchina per disinfettare l’acqua e Padre Rodrand interviene: “Tenete presente che per contro uccide anche la flora intestinale. Per uccidere i germi dell’acqua, c’è chi preferisce ingerire solo limone. Sale e limone a volontà”. Avverte che l’ameba è molto diffusa. Gli raccontiamo lo stupore nel vedere gente mangiare l’erba, Rodrand spiega che ci sono intere famiglie che vivono di sola erba: “La stagione delle piogge si è spostata avanti di un mese, diversamente c’era il mais pronto. Tocca a noi rimediare, durante la distribuzione del riso si forma una fila chilometrica davanti alla missione”.

Per farci cosa grata, manda il “serviteur” a chiamare in missione un italiano che lavora a Velingara. Si chiama Silvestro ed è amico di Zanelli, un signore simpatico conosciuto a Dakar. Fa parte dei “Volontaire du Progres”. Racconta che questa zona remota, a cavallo tra le due Guinee e il Senegal, è abitata da tribù primitive con usanze e riti estremi, difficili da credere: “In una sono cannibali e mangiano i bambini sino a 10-12 anni, considerati carne fresca … non è una battuta, li mangiano per davvero. Una volta superata quell’età il fanciullo si salva, non è più appetibile”. Continua: “In un'altra tribù, invece, mangiano i morti”. Come si dice spesso, la fame è brutta, però al pensiero che un bambino o un morto facciano venire l’acquolina in bocca è una realtà difficile da concepire.

Silvestro passa poi al tema della promiscuità: “Fanno sesso tra loro con tutti e tutte, senza vincoli. Quando una rimane incinta, lei fa la lista dei probabili padri, i quali devono portare un pollo al capo villaggio. Uno di questi sarà il marito anche se non è il vero padre. I due congiunti andranno poi a vivere fuori dalla comunità dove vi faranno ritorno solo i loro figli”. Scelte forse legate alla salvaguardia del popolo di quel villaggio, ma si tratta di linee parentali e di ramificazioni complicate, di difficile comprensione per noi occidentali.

Cambiando argomento, come tutti i bianchi incontrati prima anche Silvestro definisce gli abitanti della Guinea Conakry “brutta gente”. A noi non risulta che siano così pericolosi, forse perché Koundara è una cittadina di soli 15.000 abitanti isolata, lontana dalla capitale. A parte la presa in giro del driver e la storia di Keita, il resto della gente in generale non è dissimile dal resto dell’Africa. Vero che per il transito di un solo giorno ne sono capitate di cose. Per certo, sono poveri, pur tuttavia meno aggressivi che nei paesi francofoni, ma anche meno evoluti a causa della politica repressiva del regime dittatoriale.

Si è fatto tardi, salutiamo e ringraziamo Silvestro per la piacevole serata. Dopo giornate dure e sporche, finalmente siamo di nuovo puliti in un letto normale. La superba Velentina e il confuso Nando devono pazientare ancora un giorno.

Lunedì 13 agosto

Mi sveglio alle 3:30 e non mi riesce più di dormire. Forse non sono più abituato al comfort del pulito. Alle 7 il serviteur prepara una colazione a base di caffelatte, pane e formaggini. Salutiamo Padre Rodrand con la promessa di portare un’offerta alla missione appena riusciamo a cambiare i dollari. Anche a Vilingara non esistono banche, facciamo il giro completo di tutti i commercianti ma nessuno accetta dollari americani. Qui conoscono solo CFA e Franchi Francesi. Per i dollari e i travellers cheque di Franco occorre andare a Tambacounda, distante 85km. Prima però, dobbiamo tornare a Kounkane per vedere se arrivano Valentina, Nando e Leonard. Sulla via, 15km prima di Kounkane incontriamo il taxi con Valentina e i due amici. Valentina ci aggiorna: “Appena siete partiti da Jalanjalan è arrivata un auto e abbiamo fatto la notte in viaggio”. Sono arrivati a Kounkane questa mattina, morti di fatica. Ora ripartiamo tutti per incontrarci di nuovo a Tambacounda.